L’infinita vicenda delle prestazioni familiari agli stranieri: dalla Corte costituzionale alla Corte di Giustizia UE

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Con ordinanza 30.7.2020 n. 182 la Corte Costituzionale, investita dalla Cassazione della questione di costituzionalità delle norme sull’assegno di natalità e sulla indennità di maternità di base, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea perché venga valutata la compatibilità della norma nazionale con l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Si complica sempre più la vicenda delle prestazioni di famiglia ai cittadini di paesi terzi, che ha visto negli anni scorsi il massimo impegno di ASGI proprio per il grande significato che essa riveste ai fini della affermazione dei principi di uguaglianza.

Come noto, dopo che la quasi-totalità dei giudici comuni aveva riconosciuto l’illegittimità della esclusione dei titolari di permesso unico lavoro facendo applicazione diretta dell’art. 12 direttiva 2011/98, la Corte di Cassazione, con una serie di ordinanze in data 17.6.2019 , aveva sollevato l’eccezione di costituzionalità della esclusione, sia con riferimento all’assegno di natalità (ordinanza 16164/19) sia con riferimento all’assegno di maternità di base (ordinanza 16165/19 – si veda qui per un primo esame delle ordinanze ).

Ora la Corte Costituzionale rimette la questione alla Corte di Giustizia UE, chiedendo che la questione venga decisa con procedimento accelerato ai sensi dell’art. 105 del regolamento della Corte Europea.

La decisione del giudice delle leggi suscita alcuni interrogativi che qui possono essere solo accennati al fine di avviare una riflessione sui passaggi futuri.

  • Se la materia è regolata dal diritto derivato (la direttiva 2011/98), come la Corte Costituzionale riconosce, trova innanzitutto piena conferma la scelta dei giudici comuni di provvedere essi stessi alla sua applicazione, scelta che peraltro la stessa Corte aveva avallato dichiarando inammissibile – proprio per mancata considerazione del diritto dell’Unione – analoga questione sollevata dal Tribunale di Torino, (ordinanza Corte Cost. 52/2018).
  • La Cassazione tuttavia – al fine di “eludere” il problema della diretta applicabilità, che avrebbe condotto ad una ulteriore decisione di inammissibilità – aveva sollevato la questione di costituzionalità indicando come parametro interposto l’art. 34 CDFUE e non l’art. 12 direttiva UE (pur dando atto, in motivazione, del contrasto anche con tale norma): dunque l’eccezione andava inevitabilmente vagliata nei limiti posti dal giudice rimettente.
  • La Corte Costituzionale quindi – al fine di restare nell’ambito indicato da detto giudice – non chiede alla Corte UE se la limitazione ai lungosoggiornanti sia compatibile con la direttiva 98, ma coinvolge la direttiva solo “di rimbalzo”, chiedendo cioè se l’art. 34 cit. debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientrino le due prestazione in esame “in base all’art. 3, par. 1, lettere b) j) del Regolamento 883/2004 richiamato dall’art. 12, par.1, lett e) direttiva 2011/98”. Un “rimbalzo” un po’ complicato, ma che può forse trovare una base nelle “Spiegazioni relative alla CFDUE” (che però la Corte non richiama) laddove – con riferimento al par. 2 dell’art. 34, relativo alla “sicurezza sociale” – precisano che tale paragrafo “rispecchia le norme derivanti dal regolamento CEE n. 1408/71” cioè le norme derivanti dal Regolamento che costituisce l’antecedente normativo del Regolamento 883/04, ora richiamato dalla direttiva 2011/98.
  • All’esito del duplice rinvio (dall’art. 34 CDFUE al Regolamento 883, da questo alla direttiva 98) quel che è certo è che l’esito che deriverà dalla decisione della Corte UE è in parte diverso da quello ipotizzato dal giudice rimettente: la Cassazione infatti aveva chiesto se fosse costituzionale il requisito del permesso di lungo periodo “anziché quello del permesso di almeno un anno”, sul presupposto che una eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme impugnate avrebbe comunque lasciato in vita l’art. 41 TU immigrazione; il quesito ora posto alla Corte UE condurrà (se la Corte riconoscerà sussistente il contrasto tra diritto nazionale e diritto UE) al risultato di riconoscere il diritto ai titolari di permesso unico lavoro (che può anche essere di durata inferiore all’anno), non ai titolari di permesso di almeno un anno (che può anche non essere un permesso unico lavoro: si pensi al permesso per protezione umanitaria o per “casi speciali”).
  • Resta invece un po’ oscuro come questa costruzione possa operare rispetto alla indennità di maternità di base ex art. 74 Dlgs 151/01 posto che il giudice rimettente aveva ben chiarito che il caso sottoposto al suo esame era relativo a un periodo antecedente il 25.12.2013, rispetto al quale, quindi, la direttiva 2011/98 non poteva venire in rilievo.
  • Infine il punto 7.1.1. della ordinanza lascia agevolmente intravvedere i temi che saranno in discussione davanti alla Corte UE. Il giudice delle leggi non dubita infatti che le prestazioni in esame coprano uno dei rischi indicati nell’art. 3 del Regolamento; né dubita che dette prestazioni rientrino nella nozione di sicurezza sociale, trattandosi di prestazioni erogate sulla base di requisiti predeterminati (con il che trova conferma la vastissima giurisprudenza di merito in materia). Tuttavia, quanto all’assegno di natalità, la Corte Costituzionale si chiede se la finalità dichiarata dal legislatore di “incentivare la natalità” – benché sicuramente “non esclusiva” – possa assumere rilievo (come sempre sostenuto dall’INPS) e possa addirittura condurre la prestazione fuori dall’ambito del “contributo pubblico al bilancio familiare destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli” che deve caratterizzare appunto la prestazione familiare ai fini del Regolamento. Un dubbio che (sia detto come commento totalmente “di parte”) non sembrerebbe tale da dover scomodare la Corte UE perché qualsiasi contributo pubblico alla famiglia – specie se commisurato al reddito come erano e sono tuttora le due prestazioni in esame – è inevitabilmente anche un incentivo a tenere il comportamento che dà luogo al contributo (e dunque a “mettere su famiglia”); e sarebbe dunque sorprendente se bastasse una dichiarata intenzione “incentivante” per sottrarre la prestazione ai vincoli del Regolamento. D’altra parte, se la Corte UE dovesse individuare un discrimine giuridicamente significativo nella finalità “incentivante”, si perverrebbe all’illogica situazione che l’assegno alle famiglie con almeno tre figli (ex art. 65 L. 448/98) rientra nell’ambito della direttiva 2011/98 perché costituisce “contributo al bilancio familiare” ai sensi del Regolamento 883 (così la nota sentenza Martinez); mentre un assegno pagato sin dal primo figlio non vi rientra solo perché il legislatore ne ha dichiarato il carattere “premiale e incentivante”. Ne uscirebbe malconcio non solo il principio di uguaglianza, ma anche l’obbligo di coerenza interna del diritto dell’Unione.

Ma inutile ora cercare di anticipare l’esito della lunga querelle: certo è che l’atto finale nasce sotto premesse di non facile interpretazione.

Si tratta di vedere se la Corte europea – pur chiamata questa volta a decidere secondo un percorso meno lineare di quello che aveva portato alla sentenza Martinez e che passa questa volta dall’art. 34 CDFUE – confermerà la sua consolidatissima giurisprudenza in materia di sicurezza sociale, riaffermando che le prestazioni familiari erogate sulla base di criteri oggettivi e predeterminati rientrano comunque in tale nozione. Con ciò che ne consegue in termini di parità di trattamento.

Alberto Guariso – servizio antidiscriminazione ASGI

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