Con due ordinanze dell’8.4.2021 la Corte di Cassazione – davanti alla quale erano ripresi i giudizi dopo i due rinvii pregiudiziali alla Corte UE conclusi con le sentenze del 25.11.2020 nelle cause C-303/19 e C-302/19 – ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 2, comma 6 bis DL 69/1988 nella parte in cui prevede modalità di calcolo meno favorevoli (rispetto agli italiani) degli assegni al nucleo familiari per i lavoratori stranieri titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo (ordinanza 9378) e del permesso unico lavoro (ordinanza 9379).
Le due ordinanze suscitano forti perplessità sotto vari profili, in particolare ove si consideri che il ricorso per Cassazione era proposto dall’INPS (le Corti di merito avevano infatti deciso in favore degli stranieri ricorrenti, facendo applicazione diretta del diritto dell’Unione) e conteneva un unico motivo consistente nella asserita inesistenza del contrasto tra norma nazionale e direttive (2003/109 e 2011/98).
Una volta accertato dalla Corte UE che invece il contrasto esiste e che ciascuna direttiva, per il rispettivo campo di applicazione, “osta” a una norma nazionale come quella italiana, ci si sarebbe aspettati il mero rigetto del ricorso INPS, come in effetti aveva chiesto il procuratore generale.
Secondo la Corte, invece, la questione di causa non può essere risolta mediante “disapplicazione” della norma nazionale perché “nel caso di specie non è individuabile una disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile ..giacchè il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia”.
Così argomentando, la Corte sembra sovrapporre la disciplina degli assegni familiari (che ovviamente non è contenuta in norma dell’Unione) con l’obbligo di parità di trattamento, che invece è contenuto in norme dell’Unione. La valutazione circa la sussistenza dei requisiti di “auto esecutività” non dovrebbe quindi riguardare la disciplina della prestazione, ma la disciplina della parità: e da questo punto di vista non vi è dubbio che il precetto contenuto nelle norme in discussione (art. 11 direttiva 2003/109 e art. 12 direttiva 2011/98) sia sufficientemente chiaro, preciso e incondizionato, da imporsi sul diritto nazionale, come in effetti hanno sempre ritenuto i giudici di merito. Sembra dunque erroneo limitare gli effetti automatici e sostitutivi del diritto dell’Unione (e dunque limitare le ipotesi di disapplicazione) ai soli casi in cui il diritto dell’Unione “realizza l’effetto di sostituire la disciplina nazionale con una propria regolamentazione”: una parte rilevante della regolazione euro unitaria dell’immigrazione consiste proprio nel prescrivere obblighi di parità di trattamento, pur senza disciplinare nel merito la singola materia (accesso al lavoro, accesso alla casa, ecc.); ciò che rileva è che il trattamento sia uguale e sorprende che, secondo la Cassazione, questo obbligo (cui l’Unione attribuisce una tale importanza da inserirlo – pur con varie formulazioni – in tutte le direttive in materia di migrazione) non sia suscettibile in quanto tale di imporsi agli ordinamenti nazionali, se non attraverso la mediazione della Corte Costituzionale.
In realtà, il dubbio della Cassazione sembra ancora più radicale: sembra cioè che, secondo la Corte, l’obbligo di parità non sia direttamente applicabile perché non deve necessariamente realizzarsi attribuendo al soggetto svantaggiato lo stesso bene attribuito al soggetto privilegiato dal trattamento discriminatorio. In proposito la Corte cita la sentenza della Corte UE Stolwitzer (14.3.18, C-482/16) laddove questa affermerebbe che “in caso di violazione del divieto di discriminazione” il diritto UE lascia agli Stati membri “la libertà di scegliere, tra le varie soluzioni atte a conseguire lo scopo che esso contempla, quella che appare la più adatta a tale effetto, in funzione delle situazioni che possono presentarsi”. Cosi impostato il discorso, è conseguente la conclusione secondo la quale la decisione del giudice nazionale sarebbe non “disapplicativa”, ma “manipolativa” (punto 22) perché imporrebbe una soluzione (nel caso di specie, computare nel nucleo i familiari residenti all’estero) non prevista nè dal diritto nazionale né da quello UE.
Senonché il richiamo alla sentenza Stolwitzer appare in realtà molto parziale, posto che detta sentenza si pronunciava su un caso in cui lo Stato membro era intervenuto, dopo una precedenza sentenza della CGUE che aveva accertato la violazione della parità di trattamento, modificando il regime in senso sfavorevole agli ex-beneficiati dal regime discriminatorio: la “libertà di scelta” cui si richiama la Cassazione è stata dunque affermata con riferimento alla attività “rimediale” dello Stato che, una volta obbligato a modificare il regime discriminatorio, può farlo sia “al rialzo”, sia “al ribasso” (anche su questo punto si potrebbe forse discutere, ma la questione qui non rileva).
Del tutto diverso è il compito del giudice nazionale il quale ha un’unica possibilità, cioè rimediare alla discriminazione attribuendo al discriminato il trattamento più favorevole. Tanto è vero che anche nella sentenza Stolwitzer, pochi paragrafi dopo quelli richiamati dalla Cassazione, si legge il tradizionale principio, da sempre affermato dalla Corte, secondo il quale “fintanto che il legislatore non abbia adottato misure che ristabiliscono la parità di trattamento…il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata , regime che, in assenza della corretta applicazione del diritto dell’Unione resta il solo riferimento valido” (nello stesso senso, ancora più recentemente, la sentenza 22.1.2019 Cresco, C-193/17).
Tra l’altro sulla materia lo Stato italiano è già intervenuto con la legge delega 46/2021 in tema di assegno universale unico (i cui decreti attuativi potranno probabilmente modificare l’intera problematica) e, qualora la possibilità di calcolare il nucleo familiare comprendendo i familiari all’estero dovesse venire meno per tutti (italiani o stranieri che siano) il diritto dell’Unione non avrà nulla da “imporre” all’Italia: ma, appunto, “fino a che non sia ristabilita la parità di trattamento”, l’obbligo eurounitario di parità ha invece la forza di imporsi sulle norme nazionali con le conseguenze richiamate dalle citate sentenze della CGUE.
Le perplessità dunque sono molte ed è auspicabile che i giudici di merito considerino che la scelta tra prosecuzione o sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte Costituzionale dovrebbe essere guidata non solo da ragioni pratiche, ma anche dalla convinzioni di ciascun giudice circa il ruolo del diritto dell’Unione.
Dal punto di vista pratico, tuttavia, le cose non sembrano mutare sostanzialmente.
Fortunatamente la norma di cui si discute (art. 2 DL 69/1988) è articolata, per quanto qui rileva, in due commi diversi: il comma 6 che, senza fare espresso riferimento ai “soli italiani” , prevede la definizione generale di nucleo familiare (che non mette limiti ai familiari computabili, per quanto riguarda il loro luogo di residenza) e il comma 6bis che, per i soli stranieri, prevede per i familiari computabili il limite della residenza in Italia.
L’eccezione proposta dalla Corte (con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost.) riguarda correttamente il solo comma 6bis: qualora la Corte Costituzionale – come sembra inevitabile, stante l’accertato conflitto con il diritto UE – dovesse dichiarare incostituzionale la “norma speciale” per gli stranieri contenuta nel comma 6bis, ne risulterebbe applicabile anche ad essi la norma generale di cui al comma 6: l’esito sarebbe dunque il medesimo cui erano giunti i giudici di merito mediante la disapplicazione della deroga e l’affermazione del carattere vincolante del principio paritario fissato dal diritto dell’Unione
ASGI, che tramite gli avvocati associati ha sostenuto in molti tribunali italiani le ragioni dell’uguaglianza e del primato del diritto dell’Unione, continuerà quindi nel medesimo impegno, chiedendo con forza che l’INPS e il Governo trovino – senza necessità di attendere gli ulteriori sviluppi giudiziari della vicenda – una soluzione, anche per il passato, affinché i diritti sociali degli stranieri, specie in materia di tutela della famiglia, non siano affidati a questo intricatissimo e faticoso percorso tra le Corti.
A cura di Alberto Guariso, servizio antidiscriminazione ASGI