Numerose sono le deroghe alle procedure ordinarie, sia amministrative sia giurisdizionali, applicabili alle domande di protezione internazionale nelle articolate ipotesi introdotte dal dl 113/2018. L’analisi delle nuove disposizioni rivela profili di incompatibilità sia con la cd. direttiva procedure sia con il diritto di asilo costituzionale
di Salvatore Fachile, Adelaide Massimi e Loredana Leo
Rispettivamente avvocato socio Asgi Foro di Roma; avvocato socia Asgi Foro di Roma; dottoressa socia Asgi – progetto “In Limine”
L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica
Premessa
Il dl 113/18 (cd. Decreto Salvini 1, convertito in l. 132/18) ha profondamente inciso nella configurazione del diritto di asilo in Italia, anche tramite la riforma delle procedure accelerate.
L’istituto è poco conosciuto e la riforma del dl113/18 su questo aspetto decisamente sottovalutata dagli analisti. Eppure, si tratta di un complesso di norme congegnate in modo tale da svuotare di significato il diritto di asilo, mantenendone l’impalcatura ma di fatto rendendo estremamente difficile il suo reale esercizio.
Il dl113/18 in gran parte utilizza i margini lasciati aperti dal legislatore europeo con la direttiva procedure (direttiva 2013/32/UE)[1], e in parte va oltre, introducendo norme in contrasto con il diritto europeo la cui legittimità dovrà essere valutata in un prossimo futuro dalla Corte di Giustizia UE e dalla Corte costituzionale[2]. Al contempo, per cogliere il significato pratico di questa parte di riforma, è necessario considerare anche la modifica di alcuni altri istituti, quale la detenzione a fini identificativi, anch’essa introdotta dal dl113/18 e la nuova configurazione della domanda reiterata.
Secondo la direttiva procedure[3] e la normativa italiana, essere sottoposti ad una procedura accelerata significa subire una contrazione significativa del proprio diritto di difesa, e non solo. Come è noto, in caso di diniego a seguito di una procedura accelerata, il termine per l’impugnazione è (quasi sempre) dimezzato e il ricorso perde il suo effetto sospensivo automatico (in differente misura, come si dirà in seguito). Ma non basta. In caso di procedure accelerate, l’esame della domanda di asilo viene svolto in tempi molto rapidi (di norma sette o quattordici giorni prorogabili alle condizioni di cui all’art. 28-bis comma 3 del d.lgs. 25/2008) e in molte circostanze ciò accade al momento dell’arrivo in Italia, ossia nei luoghi di frontiera e in condizioni di trattenimento. Il richiedente asilo, in questa fase, si trova presumibilmente in una situazione di isolamento sociale, non avendo contatti con le organizzazioni e con gli operatori che svolgono attività di informazione e preparazione all’intervista presso la Commissione territoriale. Eccezion fatta per la possibile presenza in zona di frontiera dell’Unhcr, che su incarico del Ministero dell’Interno fornisce informative generali al momento dell’arrivo, che in nessun modo possono considerarsi realmente propedeutiche alla preparazione del richiedente asilo all’intervista in Commissione. Si tratta di una evoluzione del c.d. approccio hotspot, indebitamente introdotto di fatto e non di diritto dal Ministero dell’interno nell’autunno del 2015 su insistenza della Commissione UE, che ne richiese a gran voce il suo utilizzo con l’agenda UE sulle migrazioni del maggio 2015[4]. L’approccio hotspot viene introdotto come una tecnica di fatto per distinguere i richiedenti asilo dai c.d. presunti migranti economici, mantenendo una postazione di garanzia generale affidata alle Nazioni Unite e ad alcune Ong, su incarico e finanziamento ministeriale, che potessero formalmente garantire il diritto ad essere informati, alle forze di polizia di i cittadini stranieri, immediatamente dopo lo sbarco, quali richiedenti asilo o come migranti economici irregolari e sottoponibili a un respingimento differito o ad una espulsione[5]. Il dl113/18 completa il quadro. Introduce per la prima volta le procedure di frontiera, la nozione di paesi di origine sicuri e il trattenimento a fini identificativi in frontiera, amplia le ipotesi di manifesta infondatezza e riporta il tutto nell’ambito delle procedure accelerate.
1. Il trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo
In tale direzione, l’art.3 del dl 113/18 anzitutto introduce, per la prima volta in Italia, la figura del trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo (art. 6 comma 3-bis, d.lgs. 142/15), che potrà essere trattenuto in una struttura di cui all’art. 10 ter d.lgs 286/98 (i c.d. hotspot e la prima accoglienza, ossia i cd. hub) fino a 30 giorni e successivamente fino a 180 gg in un Cpr, ogniqualvolta si renda necessario verificarne o determinarne l’identità o la cittadinanza: dicitura pericolosamente ampia che di fatto potrebbe investire la totalità dei nuovi arrivi in Italia[6]. Il richiedente asilo, quindi, al suo arrivo in Italia può essere trattenuto in una struttura di frontiera o di primissima accoglienza per un tempo sufficiente per essere sentito dalla Commissione territoriale e per ricevere la notifica dell’eventuale diniego. Potrà in seguito essere poi trattenuto in un Cpr per un lasso di tempo di altri 5 mesi, che saranno di norma sufficienti ad arrivare ad un diniego con procedura accelerata con eventuale rigetto della richiesta di sospensiva contenuta nel ricorso. Il richiedente quindi resterebbe in una condizione di grande isolamento, dovrebbe preparare la Commissione in tempi strettissimi e senza un reale sostegno. Inoltre, lo stesso richiedente asilo si troverebbe a disposizione delle Forze di polizia in caso di diniego e per un eventuale rimpatrio forzato.
In ogni caso, il dl113/18 chiarisce che tutti i richiedenti asilo trattenuti anche solo a fini identificativi saranno sottoposti a procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis comma 1 che richiama l’art. 28 comma 1 lett. c) e dunque saranno sentiti dalla Commissione entro 7 giorni dall’invio degli atti da parte della Questura (che provvede “immediatamente” dopo la domanda di asilo). I richiedenti asilo trattenuti riceveranno la risposta nei successivi due giorni e in caso di diniego avranno il diritto di restare in Italia per la presentazione del ricorso (entro 15 giorni) e – in caso di richiesta di sospensiva – fino a quando il Tribunale non avrà respinto tale richiesta (in via definitiva, ossia dopo le eventuali repliche del difensore ai sensi dell’art. 35-bis comma 4 d.lgs. 25/08). La decisione del giudice viene adottata inaudita altera parte, sulla base delle motivazioni trasfuse nel ricorso dal difensore, che ha avuto solo 15 giorni per apprestare la difesa con il suo assistito trattenuto (in un c.d. hotspot o in un Cpr) sin dal suo arrivo in Italia, con presumibile carenza di strumenti comunicativi e limitata cognizione degli elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale in Italia.
Il trattenimento a scopo identificativo appare in chiaro contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione italiana, che delineano una disciplina rigorosa della privazione della libertà solo come extrema ratio e in condizioni di parità di trattamento tra cittadini stranieri e italiani. Tuttavia, la Consulta non ha ancora avuto modo di valutarne la legittimità, in quanto, non essendo ancora mai stati adottati decreti di trattenimento a fini identificativi, la questione di legittimità costituzionale non è stata sollevata. Tuttavia, stante le denunce pubbliche e i ricorsi alla Corte EDU[7], appare molto probabile che il Ministero degli Interni stia ancora ricorrendo al trattenimento di fatto sine titulo dei cittadini stranieri appena giunti in Italia, secondo l’ormai noto schema dell’approccio hotspot: la persona straniera viene trattenuta senza alcun provvedimento nell’hotspot per il tempo necessario a sottoporlo al c.d. foglio notizie e al foto-segnalamento. Con il foglio notizie, come ormai di dominio pubblico[8], il cittadino straniero viene guidato ad autodefinirsi o come richiedente o come migrante economico irregolare e in quest’ultimo caso sottoposto a respingimento differito previo eventuale trattenimento in Cpr.
TAB 1.
Il trattenimento del
richiedente protezione internazionale a fini identificativi. Tabella
riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Audizione in Commissione entro 7 giorni e adozione della decisione entro 2 giorni (art. 28-bis c. 1 d.lgs 25/2008 e art. 28 c. 1 lett. c) d.lgs. 25/2008). | Il ricorso è proposto, pena inammissibilità, entro 15 giorni dalla notifica del provvedimento (art. 35-bis c. 2 d.lgs 25/2008); Sospensiva non automatica ma concedibile. L’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa, con decreto motivato, pronunciato entro 5 giorni dalla presentazione dell’istanza di sospensione (art. 35-bis c. 4 d.lgs 25/2008). | Contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione italiana, che delineano una disciplina rigorosa della privazione della libertà solo come extrema ratio e in condizioni di parità di trattamento tra cittadini stranieri e italiani; Limitazioni ad accesso a tutela legale e difesa connesso ai termini abbreviati in situazione di trattenimento. |
2. Le procedure di frontiera
L’art. 9 del dl 113/18 introduce, anche in questo caso per la prima volta in Italia, la procedura di frontiera, aggiungendo due nuovi commi all’art. 28-bis del d.lgs 25/2008, la norma che si occupa delle procedure accelerate. Più esattamente, il comma 1-ter, secondo cui la procedura accelerata – già vista per i casi di domanda di asilo presentata da richiedenti asilo trattenuti – si applica anche al richiedente che “presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito (…) dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli (…)” e “nei casi di cui all’art. 28, comma 1, lettera c-ter” (ossia nei casi di cittadino proveniente da paese di origine sicuro) . In tali casi la procedura, “può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. Mentre, il comma 1-quater specifica che “(…) le zone di frontiera o di transito sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Con il medesimo decreto possono essere istituite fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali (…) per l’esame delle domande di cui al medesimo comma 1-ter.”. Quindi, ai sensi della nuova norma, chi presenta la domanda in frontiera o nelle zone di transito viene sottoposto a procedura accelerata (7 gg + 2 gg) ogni qualvolta sia stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera oppure provenga da uno Stato dichiarato dall’Italia come paese di origine sicuro (come meglio si dirà nel prosieguo). In entrambi i casi, si tratta di una domanda presentata in frontiera o zone di transito.
Il ricorso avverso il rigetto della Commissione anche in questo caso non ha effetto sospensivo automatico (art. 35-bis comma 3 lett. d), e può essere presentato entro 30 giorni (e non 15) dalla relativa notifica, stante la nuova formulazione dell’art. 35-bis comma 2.
Diviene, anzitutto, fondamentale interpretare correttamente la nozione di elusione delle frontiere. Se la si intende come violazione delle norme di ingresso, la quasi totalità dei richiedenti asilo rientrerà nel suo ambito (essendo per lo più privi di passaporto o di visto di ingresso)[9]. Viceversa, si ritiene che debba interpretarsi secondo l’accezione principale del verbo eludere, ossia “Sfuggire, evitare con astuzia o destrezza”[10], limitando quindi l’applicazione della legge ai soli casi in cui il richiedente non si presenti spontaneamente ai controlli di frontiera (o perfino richiedendo il soccorso) ma venga bloccato quando è in atto un tentativo strutturato di superarli furtivamente.
In secondo luogo, appare decisiva una corretta delimitazione della nozione di frontiera e zona di transito, per evitare una applicazione indebita della nuova forma di procedura accelerata. Per frontiera deve intendersi necessariamente il luogo di prossimità fisica con il confine territoriale con un territorio non europeo. Tipicamente Lampedusa, ma anche altre parti del sud Italia in caso di sbarco diretto dal mare al porto interessato (meno di frequente, ma sono registrati molti casi in Sicilia, Calabria, Puglia, etc.). Per zone di transito, anche più semplicemente, si devono intendere gli aeroporti e i porti internazionali, dove per convenzione esistono dei passaggi dal vettore aereo o marino al territorio italiano che rappresentano di fatto una frontiera virtuale, perché immettono la persona proveniente da paese extra Schengen in territorio italiano. Non possono essere considerate frontiere o zone di transito i confini con i paesi europei e tanto meno i luoghi non immediatamente prossimi, dove le persone soccorse o bloccate vengono condotte per ragioni logistiche. Dovrà, quindi, in gran parte ritenersi illegittimo il decreto ministeriale[11] emanato nelle scorse settimane ai sensi dell’art. 28-bis comma 1-quater che individua le zone di frontiera in numerose città del centro sud che non sono affatto interessate da arrivi diretti (se non eventualmente negli aeroporti) da zone extra Schengen, ma al contrario sono sedi di accoglienze o Cpr in cui vengono condotti i richiedenti asilo giunti in frontiere molto distanti[12]. Il decreto, a titolo esemplificativo, individua come zona di frontiera la città di Messina, che di certo non è interessata da arrivi diretti di cittadini non comunitari, ma al contrario è la sede di un cd. hotspot dove vengono condotti i cittadini stranieri giunti a Lampedusa[13]. L’intenzione del legislatore europeo di intendere in senso proprio le zone di frontiera come quelle che fisicamente confinano con una zona extra Schengen si evince tra l’altro dall’art. 43, par. 3, direttiva 2013/32 UE (Procedure di frontiera) che recita significativamente “Nel caso in cui gli arrivi in cui è coinvolto un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi che presentano domande di protezione internazionale alla frontiera o in una zona di transito, rendano all’atto pratico impossibile applicare ivi le disposizioni di cui al paragrafo 1, dette procedure si possono applicare anche nei luoghi e per il periodo in cui i cittadini di paesi terzi o gli apolidi in questione sono normalmente accolti nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito”. Il legislatore UE considera, pertanto, eccezionale l’ipotesi di utilizzo, ai fini delle procedure di frontiera, di un luogo diverso da quello dell’arrivo; anche in questo caso (eccezionale afflusso) prevede, comunque, che si tratti di un luogo collocato nelle immediate vicinanze, cosa che non può dirsi, a scopo esemplificativo, per il cd. hotspot di Messina rispetto alle persone che sbarcano a Lampedusa.
La procedura di frontiera, dunque, consiste in una procedura accelerata che viene applicata da Commissioni ad hoc in zona di frontiera a chi vi è giunto direttamente da un paese extra Schengen con l’intenzione di sottrarsi dolosamente ai controlli di frontiera[14] (o proviene da un paese di origine sicuro). Questa appare l’interpretazione più consona dei commi 1-ter e 1-quater introdotti dal dl 113/2019, che tuttavia anche in questa lettura appaiono contrari alla direttiva 2013/32/UE. Quest’ultima, infatti, nel combinato disposto degli artt. 43 e 31, par. 8, delineano un sistema di procedure accelerate e procedure di frontiera con l’indicazione di una serie di ipotesi tassative non suscettibili di ampliamenti[15]. Il legislatore europeo è ben consapevole che tali procedure contraggono in modo radicale i diritti dei richiedenti asilo e ne evidenza in modo chiaro il carattere eccezionale, non derogabile. Viceversa, il legislatore italiano con il dl 113/18 sancisce che le procedure di frontiera siano applicate ai richiedenti fermati in frontiera che eludono o cercano di eludere i valichi, ossia in un caso non incluso nella lista tassativa delle ipotesi di procedure accelerate e di frontiera di cui all’art. 31, par. 8, direttiva 2013/32/UE. Sarà dunque possibile disapplicare la norma nazionale posto che quest’ultima disposizione della direttiva procedure è suscettibile di produrre effetti diretti. A tal fine è possibile, sebbene non sia necessario, sollevare una questione pregiudiziale all’interno di un procedimento art. 35-bis d.lgs 25/08 e attendere una sentenza interpretativa della Corte di Giustizia.
TAB 2.
Le procedure di frontiera.
Tabella riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Audizione in Commissione entro 7 giorni e adozione della decisione entro 2 giorni (art. 28-bis c. 1 e 1-ter d.lgs 25/2008) | Il ricorso è proposto, pena inammissibilità, entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento (art. 35-bis c. 3 lett. d) d.lgs 25/2008); Sospensiva non automatica ma concedibile (art. 35-bis c. 4 d.lgs 25/2008). | Significato da attribuire ai termini eludere e tentare di eludere; Delimitazione della nozione di zone di frontiera con riferimento anche all’art. 43 della direttiva 2013/32/UE: il decreto ministeriale approvato il 5 agosto 2019 appare quindi illegittimo; Contrarietà alla direttiva 2013/32/UE, art. 31 par. 8: lista tassativa di casi in cui è possibile applicare le procedure accelerate (non comprende l’ipotesi di elusione o tentativo di elusione delle frontiere) e art. 43: procedura di frontiera applicabile alle ipotesi di cui all’art. 31 par. 8 e all’analisi di ammissibilità ex art. 33. |
3. I Paesi di origine sicuri
Un’altra novità del dl 113/2018 (introdotta in sede di conversione), con enormi potenzialità, è rappresentata dall’art. 7-bis (trasfuso nell’art. 2-bis al d.lgs 25/08) che introduce per la prima volta il concetto di Paesi di origine sicuri.
Il 4 ottobre 2019 il Ministro degli Affari Esteri e il Ministro della Giustizia hanno presentato in conferenza stampa il decreto contenente una lista di 13 paesi di origine sicuri.
Attraverso l’introduzione dell’art. 2-bis al decreto 25/2008 (cd. Decreto procedure), la norma ha previsto infatti la possibilità per il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’interno, di adottare con decreto interministeriale un elenco di paesi di origine sicuri in base ai criteri stabiliti nei commi successivi del medesimo articolo.
L’introduzione di tale concetto ha potenzialità rivoluzionarie dell’attuale sistema di tutela, comportando un estremo svilimento dell’asilo che passa attraverso lo slittamento della protezione da un piano individuale a un piano collettivo e attuando, attraverso la previsione – come si vedrà, piuttosto confusa – di una procedura estremamente restrittiva delle garanzie del richiedente protezione, uno svuotamento di fatto della possibilità di accedere alla protezione.
Per quanto riguarda criteri e modalità di valutazione, si prevede (art. 2-bis cc. 2, 3 e 4) che uno stato possa essere considerato paese di origine sicuro ove sia possibile dimostrare, in via generale e costante, che, sulla base del suo ordinamento, dell’applicazione della legge in un sistema democratico e della situazione politica generale, non sussistano atti di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o degradanti, una situazione di violenza indiscriminata. Per effettuare tale valutazione si tiene conto della misura in cui è offerta protezione contro persecuzioni e maltrattamenti mediante le disposizioni legislative e la loro applicazione, il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nei principali strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, il rispetto del principio di non-refoulement, e un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni. Gli strumenti di cui si dota l’esecutivo per la valutazione di tali criteri sono le informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, da Easo, Unhcr, Consiglio di Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.
Il decreto recentemente presentato dai Ministri, tuttavia, si limita a riportare una lista di 13 paesi considerati sicuri, attraverso un riferimento a fonti (non pubbliche) del Ministero degli affari esteri e della Commissione nazionale utilizzate per l’individuazione di tali Stati. Alcuna informazione è contenuta nel Decreto relativamente ai criteri sopra elencati. Non viene inoltre utilizzata la possibilità, contenuta all’art. 2-bis, di escludere determinate parti del territorio o determinate categorie di persone dalla valutazione di sicurezza complessiva che viene fatta del paese.
Gli stati contenuti in tale lista sono: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.
È utile rilevare che, trattandosi di una lista determinata da un atto amministrativo (ossia il decreto interministeriale), questa avrà un valore non vincolante per il giudice che in sede di valutazione del ricorso potrà disapplicare il decreto .
Il paese di origine si considera sicuro per il richiedente che non abbia “invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova” (art. 2-bis). Questa previsione comporta una radicale modifica nel regime probatorio: la sicurezza del paese di origine per il richiedente asilo si presume, e questi è tenuto a invocare i motivi che rendono il paese insicuro per lui, o, secondo quanto stabilito all’articolo 9 c. 2-bis, addirittura, a dimostrare la sussistenza di tali motivi.
Ciò che qui interessa sono però le conseguenze connesse alla provenienza di un richiedente asilo da un Paese di origine dichiarato sicuro dal sopracitato decreto interministeriale. Il nuovo articolo 28 d.lgs 25/08 lo inserisce fra le ipotesi di esame prioritario (con scarse conseguenze pratiche), ma soprattutto il nuovo art 28-ter, comma 1 lett. b), lo inserisce nell’elenco delle ipotesi in cui la domanda di asilo può essere considerata manifestamente infondata (concetto su cui si tornerà nel prosieguo). A sua volta, l’art. 28-bis d.lgs 25/08 lo annovera tra le ipotesi di procedura accelerata. Più esattamente, il comma 1-bis stabilisce che, in questi casi (richiedente proveniente da Paese di origine sicuro), “la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”. Dal tenore letterale, sembrerebbe affermarsi che in queste ipotesi la Commissione operi una valutazione sulla base di quanto dichiarato dal richiedente nella domanda di asilo (modello C3) senza procedere all’audizione.
Tuttavia, questa interpretazione sarebbe da considerarsi illegittima per chiara contrarietà (tra l’altro) alla direttiva 2013/32/UE, che tassativamente consente di adottare una decisione senza un esame completo della domanda nei soli casi di inammissibilità di cui all’art 33 par. 2, che a sua volta annovera tra le possibilità tassative quella del richiedente proveniente da Paese terzo sicuro di cui all’art. 38, concetto del tutto differente da quello del Paese di origine sicuro di cui agli artt. 36 e 37. Il Paese terzo sicuro è, infatti, una nozione giuridica relativa ai paesi di transito del richiedente asilo e prodromica a un giudizio di ammissibilità che non è stato recepito nel nostro ordinamento. Il concetto di Paese di origine sicuro è, invece, attinente al paese di provenienza del richiedente ed è disciplinato dalla direttiva ai fini di una procedura accelerata, con ordinaria audizione del richiedente.
Si tratta probabilmente di un errore grossolano del legislatore del dl 113/18, salvo si voglia attribuire un significato compatibile con il diritto UE: quello per cui il nuovo art. 28-bis, comma 1-bis sopra citato, attribuisce alla Commissione – all’interno della procedura accelerata – un termine di 5 giorni invece che di 2 giorni (come al comma 1 sempre dell’art. 28-bis) per adottare la decisione dopo aver effettuato l’audizione del richiedente, che andrebbe convocato presumibilmente nel termine di 7 giorni dalla trasmissione degli atti da parte della questura (come per le ipotesi già analizzata di cui al primo comma dell’art. 28-bis). In definitiva, la specifica procedura accelerata prevista dal comma 1-bis dell’art. 28-bis del dl 25/08 (come modificato dal dl 113/08) o è da considerarsi radicalmente illegittima per contrarietà alla direttiva procedure oppure deve interpretarsi nel senso di prevedere un termine di 7 giorni per la convocazione del richiedente asilo con una nazionalità tra quelle inserite nella lista dei Paesi di origine sicuri e un termine di 5 giorni (invece che 2) per la adozione della decisone da parte della Commissione.
Inoltre, in caso di diniego della domanda presentata da richiedente che proviene da un Paese di origine sicuro, il termine per la proposizione del ricorso sarà di 15 giorni solo nella ipotesi in cui la domanda di protezione venga dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’art. 28-ter d.lgs 25/08 (che come si dirà più avanti prevede numerose ipotesi, tra cui anche quella del richiedente proveniente da Paese di origine sicuro). Questo poiché l’art. 35-bis, comma 2, nel dimezzare i termini ordinari, non richiama l’art. 28-bis comma 1-bis (quello specifico sui Paesi di origine sicuri) ma il comma 2, che disciplina le ipotesi in cui la Commissione può emanare un diniego con espressa dicitura di manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28 ter (combinato disposto con l’art. 32 comma 1 lett. b-bis), che tra le ipotesi prevede anche il caso di richiedente proveniente da Paese di origine sicuro (ma si tratta evidentemente di una possibilità e non di un automatismo, in quanto anche in questi la domanda potrebbe considerarsi infondata ma non anche manifestamente infondata)[16].
In termini identici deve risolversi il dubbio interpretativo relativo all’efficacia sospensiva. L’art. 35-bis, comma 3, stabilisce che non è riconosciuta un’efficacia automaticamente sospensiva nei casi espressamente richiamati, tra cui non annovera direttamente quello del Paese di origine sicuro di cui all’art. 28-bis comma 1-bis. Tuttavia, tra le ipotesi contemplate si rinviene quella del diniego per manifesta infondatezza ai sensi del combinato disposto dell’art. 32, comma 1 lett b-bis), e dell’art. 28-ter. Come per il dimezzamento dei termini, dunque, il ricorso avverso il rigetto di una domanda di asilo presentata da un richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non avrà effetto automaticamente sospensivo nella misura in cui il provvedimento della Commissione espressamente rigetti la domanda per manifesta infondatezza.
Per i casi di diniego di richiedenti provenienti da paesi di origine sicuri, inoltre, il legislatore del dl 113/18 ha contratto ulteriormente il diritto di difesa, stabilendo che il normale obbligo motivazionale in fatto e in diritto previsto in caso di diniego da parte della Commissione Territoriale, sia sostituito da una motivazione che dà “atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso”. Sembrerebbe, quindi, vincolare o quanto meno consentire alla Commissione di rigettare una domanda di asilo con una stereotipata motivazione, priva degli ordinari elementi valutativi e giustificativi. Così intesa, appare evidente la contrarietà della norma agli ordinari parametri costituzionali in tema di motivazione e razionalità degli atti della pubblica amministrazione e agli obblighi motivazionali in fatto e in diritto a cui sono tenuti gli Stati membri in caso di rigetto della domanda di asilo ai sensi dell’art. 11, par. 2, della direttiva 2013/32/UE. D’altro canto, difficilmente della è immaginabile una lettura costituzionalmente orientata che modifichi l’obbligo motivazionale della Commissione in modo compatibile con la Costituzione e con la Direttiva procedure.
Infine, come accennato nel precedente paragrafo, la provenienza da un paese di origine sicuro è rilevante anche in un’altra ipotesi, ossia quando il richiedente presenta la domanda di asilo in frontiera o in una zona di transito. Se la domanda di asilo è presentata in uno di questi due luoghi, da un richiedente che provenga da un paese di origine dichiarato sicuro, la Commissione territoriale potrà applicare una procedura accelerata e potrà (inoltre ma non necessariamente) svolgerla in frontiera. Si tratta del già esaminato comma 1 ter dell’art. 28-bis (procedure accelerate), che recita. “La procedura di cui al comma 1 [7 gg + 2 gg] si applica anche nel caso in cui il richiedente presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 1-quater (…) nei casi di cui all’articolo 28, comma 1, lettera c-ter). In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. In queste ipotesi, il ricorso avverso l’eventuale diniego non avrà effetti sospensivi automatici (art. 35-bis comma 3 lett. d “La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto: …avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 28-bis, commi 1-ter …)”[17]. Il termine per l’impugnazione rimarrebbe quello ordinario di 30 giorni. Appare evidente come l’applicazione congiunta delle nuove norme relative alle procedure in frontiera e ai paesi di origine sicuri (tanto più se lasciata a una interpretazione estensiva, come sembra implicare il decreto sulle zone di frontiera o di transito) può condurre a una procedura accelerata svolta in zona di frontiera (in gran fretta e in condizioni di semi-isolamento) di tutti i cittadini che provengono da uno dei paesi dichiarati sicuri (si pensi a tutti i cittadini tunisini che approdano nelle acque siciliane). Con la conseguente massiccia e sistematica contrazione dei diritti di difesa.
TAB 3.
I paesi di origine sicuri.
Tabella riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Domanda prioritaria (28 c. 1 lett. c-ter); La questura provvede senza ritardo alla trasmissione alla Commissione che decide entro 5 giorni (28-bis c.1-bis); In caso di domanda presentata da richiedente proveniente da paese di origine sicuro in frontiera, audizione in Commissione entro 7 giorni e adozione della decisione entro 2 giorni (art. 28-bis c. 1ter d.lgs. 25/2008); Tra le ipotesi di manifesta infondatezza (art. 28-ter c. 1 lett. b) d.lgs 25/2008). | Solo nei casi di rigetto per manifesta infondatezza, il ricorso è proposto, pena inammissibilità, entro 15 giorni dalla notifica del provvedimento (art. 35-bis c. 2 d.lgs 25/2008) altrimenti il termine è di 30 giorni; Il ricorso non ha effetto sospensivo automatico nei casi di diniego per manifesta infondatezza (che può derivare dal fatto di provenire da un Paese di origine sicuro) oppure di applicazione della procedura accelerata per le domande presentate in frontiera da un cittadino proveniente da un paese di origine dichiarato sicuro (art. 35-bis c. 4 d.lgs 25/2008) | Svilimento del concetto di protezione internazionale attraverso il passaggio del concetto di sicurezza per il singolo a sicurezza per la maggioranza; Criticità nell’adozione del decreto interministeriale; L’ipotesi di esclusione dell’audizione è da considerarsi illegittima per contrarietà alla Direttiva 2013/32/UE (omissione del colloquio solo nei casi di ammissibilità ex art. 33 par. 2). |
4. La manifesta infondatezza
Un’altra norma introdotta dal dl 113/18 (art. 7-bis, comma 1 lett. f), in sede di conversione) che potrebbe avere nella pratica un effetto vastissimo è l’art. 28-ter D.lgs 25/08, che prevede una complessa serie di casi di manifesta infondatezza. Precedentemente l’unica ipotesi di manifesta infondatezza era prevista dall’art. 28-bis, tra le ipotesi in cui si poteva applicare una procedura accelerata e di conseguenza giungere ad un eventuale rigetto per manifesta infondatezza. Si trattava dell’ipotesi in cui il richiedente aveva sollevato “esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale”. Era già avvertita come norma insidiosa, tanto è vero che la Commissione Nazionale nella circolare del 30.07.2015[18] aveva precisato come, per giungere a un rigetto per manifesta infondatezza, fosse necessario che la decisione collegiale della Commissione territoriale fosse stata adottata all’unanimità, che non riguardasse categorie vulnerabili (di cui all’art. 17 d.lgs 142/15) e che non fosse stata espletata una valutazione sull’attendibilità del richiedente, in quanto relativa a questioni non attinenti alla protezione internazionale dove non si pone neppure un problema di credibilità.
Inoltre, la Corte di appello di Napoli,[19] nel sistema previgente la riforma 2018, aveva precisato che poteva giungersi a una decisione di manifesta infondatezza solo nella misura in cui fosse stata espletata (con il rispetto dei termini e delle garanzie) una procedura accelerata, mentre non era possibile nel caso di una decisone adottata a seguito di una procedura ordinaria. Ciò in ragione del fatto che l’art. 32 d.lgs 25/08, comma 1 lett.b-bis), nel disciplinare il caso in cui la Commissione poteva adottare una decisione per manifesta infondatezza, faceva espresso richiamo all’art. 28-bis, comma 2, ossia alla procedura accelerata in caso di possibile manifesta infondatezza. La sentenza della Corte di Appello di Napoli aveva posto fine a un dibattito complesso che aveva coinvolto molti attori. Tuttavia, la l. 132/2018, in sede di conversione, a fronte di un confronto serrato tra istituzioni e società civile, è intervenuta con l’art. 7, comma 1 lett. g), che modifica puntualmente il richiamo effettuato dal sopra menzionato art. 32 d.lgs 25/08. Infatti, quest’ultimo, nel prescrivere che il rigetto della Commissione territoriale può avere come contenuto anche una dichiarazione di manifesta infondatezza, non richiama più l’art. 28-bis, che disciplina le ipotesi di procedura accelerata, ma richiama il nuovo art. 28-ter, che introduce una gamma molto più articolata di ipotesi di manifesta infondatezza. Potrebbe dunque sostenersi che, a seguito della l. 132/2018, la Commissione territoriale possa adottare una decisione di manifesta infondatezza anche nel caso in cui abbia espletato una procedura ordinaria e non solo una procedura accelerata.
Il nuovo art. 28-ter d.lgs 25/08 introduce, come accennato, nuove e rilevanti ipotesi di manifesta infondatezza che si aggiungono a quella appena sopra illustrata che viene confermata.
La prima nuova ipotesi è quella del comma 1 lett. b), del richiedente che “(…) proviene da un Paese designato di origine sicuro”. Ipotesi già illustrata.
Al comma 1 lett. c), viceversa si introduce il caso del richiedente che ha “(…) rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie o palesemente false, che contraddicono informazioni verificate sul Paese di origine”. In questa ipotesi, sarà possibile da parte della Commissione effettuare una valutazione di credibilità, ma il giudizio sarà operato sulla base della evidenza, in quanto si richiede che l’incoerenza e la contraddittorietà del richiedente siano palesi.
Alla lettera d), la manifesta infondatezza viene sancita per il caso del richiedente che “(…) ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi o omettendo informazioni o documenti riguardanti la sua identità o cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente, ovvero ha dolosamente distrutto o fatto sparire un documento di identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza”. Evidentemente, deve trattarsi di comportamenti posti in essere dal richiedente con la specifica intenzione di trarre in inganno la Commissione: non dovranno rilevare, dunque, i comportamenti finalizzati ad entrare nel territorio italiano (come tipicamente la distruzione del passaporto in zona di transito) o dichiarazioni non veritiere rese al momento della compilazione della domanda di asilo e determinati da mancanza di informazioni, possibili fraintendimenti linguistici o iniziali timori del richiedente appena giunto sul territorio.
La successiva lett. e) introduce l’ipotesi potenzialmente più insidiosa, che potrebbe investire una gamma molto ampia di soggetti, prevedendo la manifesta infondatezza nel caso del richiedente che “(…) è entrato illegalmente nel territorio nazionale, o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno, e senza giustificato motivo non ha presentato la domanda tempestivamente rispetto alle circostanze del suo ingresso”. Moltissimi cittadini stranieri vivono sul territorio italiano privi di un permesso di soggiorno e molto spesso non presentano tempestivamente la domanda di asilo per ragioni non sempre facilmente comprensibili: mancanza di informazioni, timori del tutto infondati, etc. Sarà dunque necessario interpretare la locuzione “senza giustificato motivo” in maniera da tener conto anche della complessità interculturale e della più generale diversità di approccio che possono determinare le scelte dei cittadini stranieri che presentano la domanda di asilo anche molto tempo dopo il loro arrivo in Italia. Ulteriore perplessità suscita l’utilizzo del termine tempestivamente il quale, non essendo riferito ad un arco temporale ben determinato, si presta a dar luogo a numerose e differenziate interpretazioni applicative.
La lett. f) aggiunge alla lista delle ipotesi quella del richiedente che “(…) ha rifiutato di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013”. Infine, la lettera g) è relativa al richiedente “ (…) che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 6, commi 2, lettere a), b) e c), e 3, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”, ossia in condizioni di trattenimento, salvo che nel caso sia determinato dal mero rischio di fuga.
Le nuove ipotesi di manifesta infondatezza che sono state introdotte con l’art. 28-ter trovano corrispondenza nella Direttiva procedure, che disciplina l’istituto nel combinato disposto dell’art. 32 e dell’art. 31, par. 8. Rimane la necessità di un’interpretazione rigorosa di alcuni requisiti, soprattutto relativi alla lett. e) per evitare un’applicazione distorta dell’istituto, che costituisce un’ipotesi derogatoria dell’ordinaria procedura e genera una contrazione importante dei diritti del richiedente asilo. Infatti, il richiedente che versa in una di queste condizioni potrà essere soggetto ad una procedura accelerata in forza del richiamo dell’art. 28-bis, comma 2 lett. a), d.lgs 25/08 (14 gg per la convocazione e 4 gg per la decisione) e qualora la Commissione confermi l’esistenza dei requisiti richiesti dalla norma sarà possibile un rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 32, comma 1 lett. b-bis). In tal caso, il ricorso avverso il diniego soggiace al termine per la sua proposizione di 15 giorni (ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08) e non avrà un effetto sospensivo automatico (ai sensi dell’art. 35-bis comma 3 lett. c d.lgs 25/08). La Direttiva procedure, tuttavia, stabilisce espressamente nell’art. 46, par. 6 lett. a) ultimo inciso, che non può escludersi l’effetto automaticamente sospensivo in caso di ricorso avverso un rigetto per manifesta infondatezza, qualora quest’ultima sia stata determinata dall’ingresso o dalla permanenza irregolare del richiedente sul territorio dello Stato membro avendo presentato la domanda di asilo in ritardo senza giustificato motivo[20].
TAB 4.
La manifesta infondatezza.
Tabella riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Audizione in Commissione entro 14 giorni e adozione della decisione entro 4 giorni (art. 28-bis c. 2 lett. a) d.lgs 25/2008) | Il ricorso è proposto, pena inammissibilità, entro 15 giorni dalla notifica del provvedimento (art. 35-bis c. 2 d.lgs 25/2008); Sospensiva non automatica ma concedibile (art. 35-bis c. 3 lett. c) e c. 4 d.lgs 25/2008). | Le ipotesi introdotte trovano corrispondenza nella direttiva 2013/32/UE, tuttavia è necessaria una loro interpretazione rigorosa per evitare un’applicazione distorta dell’istituto. |
5. La domanda reiterata
La riforma dell’istituto della domanda reiterata, operata dall’art. 9 del dl 113/18 che ha modificato gli artt. 7, 28, 29 e 29-bis del d.lgs 25/08, è probabilmente quella che assume un peso maggiore nell’effettivo esercizio del diritto di accedere alla procedura di asilo. Un intervento legislativo molto incisivo, strutturato e in gran parte contrario alla direttiva 2013/32/UE.
In questa sede non sarà possibile una disamina completa, ma ci si limiterà a quei profili utili a completare il quadro dell’operazione portata a termine con la riforma delle procedure accelerate.
L’art. 29, comma 1 lett. b), disciplina l’ipotesi preesistente di domanda reiterata, ossia quella del richiedente che, dopo aver ricevuto un rigetto definitivo della sua domanda di asilo, ha presentato una seconda domanda di asilo “identica” (…) , “senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine”. Questa seconda domanda di asilo può essere (come già in precedenza previsto) sottoposta a un giudizio di ammissibilità da parte della Commissione. Ossia un giudizio condotto sulla base del modello C3 e degli altri eventuali documenti prodotti dal richiedente al momento della presentazione della domanda. L’individuazione dei casi da sottoporre al giudizio di ammissibilità è affidata al Presidente della Commissione territoriale (art. 28. comma 1-bis, d.lgs 25/08) mentre la sua valutazione è di competenza della Commissione territoriale in composizione collegiale (art. 29, comma 1, d.lgs 25/08). Il Presidente, dunque, procede a un “esame preliminare” (art. 29, comma 1-bis) senza alcuna audizione del richiedente e la Commissione adotta l’eventuale decisione di inammissibilità. Prima della riforma del dl 113/18, il Presidente aveva l’obbligo di avvisare (ai sensi dell’art. 29 comma 1-bis) il richiedente che si stava svolgendo un esame preliminare ad una dichiarazione di inammissibilità e quest’ultimo, entro 3 giorni, aveva il diritto di inviare una memoria per integrare o meglio illustrare i nuovi elementi posti alla base della sua seconda domanda di asilo. Questa garanzia del richiedente è stata abrogata, in linea con le facoltà concesse a ogni Stato membro dalla Direttiva 2013/32/UE all’art. 42 comma 2 lett. b). Ovviamente, se dall’esame preliminare e cartaceo della domanda di asilo dovesse risultare che “(…) sono emersi o sono stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi che aumentano in modo significativo la probabilità che al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale” il richiedente sarà convocato per una nuova e ordinaria audizione (art. 40, par. 3, direttiva 2013/32/UE). È evidente che ciò che giuridicamente rileva è l’esistenza nella nuova domanda di asilo (in pratica nel modello C3) che siano stati addotti nuovi elementi e non anche che questi appaiano già fondati ad una prima lettura. Al contempo, devono considerarsi nuovi anche gli elementi che precedentemente non erano stati addotti per una qualsiasi ragione[21] dal richiedente asilo. Infine, tali elementi possono essere relativi alla storia personale del richiedente (ed essere anche intesi come elementi probatori) o alla condizione socio-politico del suo paese di origine.
La procedura prevista per la dichiarazione di inammissibilità è accelerata ai sensi dell’art. 28-bis, comma 1-bis, d.lgs 25/08, secondo cui in questi casi “(…) la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”.
La decisione di inammissibilità è impugnabile innanzi al Tribunale civile entro 30 giorni dalla notifica (l’art. 35-bis, comma 2, che stabilisce i casi di riduzione a 15 gg del termine di impugnazione, infatti, non richiama il comma 1-bis dell’art. 28-bis). Il ricorso avverso la decisione di inammissibilità non ne sospende automaticamente gli effetti, ma sarà necessario come negli altri casi già esaminati presentare apposita istanza cautelare. Tuttavia, il legislatore del dl 113/18 ha apportato un’importante modifica relativa al diritto del richiedente di attendere in Italia la decisione del Tribunale civile in merito alla propria richiesta di sospensiva. Infatti, il nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08 stabilisce che, nel caso di questa ipotesi di inammissibilità, il richiedente ha diritto di permanere in Italia fino al deposito del ricorso (o allo spirare del termine), ma non anche di attendere che il giudice adotti una decisione sulla domanda cautelare di sospensione degli effetti che il richiedente ha avanzato con il ricorso medesimo. Questa previsione, tuttavia, è da considerarsi illegittima per contrarietà alla direttiva 2013/32/UE, art. 41, che espressamente indica i casi in cui è possibile derogare al diritto di rimanere sul territorio del Paese membro in attesa della decisione definitiva del Giudice sull’istanza di sospensiva. I casi previsti dall’art. 41 sono solo due: il primo è quello del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41, lett. b) e il secondo è relativo al richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione” di un provvedimento che ne comporterebbe “l’imminente” rimpatrio forzato. Sull’esatto significato di queste due ipotesi si ritornerà a breve, per il momento interessa evidenziare che la limitazione del diritto di rimanere in Italia dopo il deposito del ricorso avverso l’inammissibilità e in attesa della decisone del giudice sulla istanza di sospensiva, sancita dal nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08, è illegittima, in quanto la Direttiva procedure nell’art. 41 permette una tale limitazione esclusivamente in altri casi, del tutto differenti, che, infatti (come vedremo a breve), hanno una indipendente disciplina anche nell’ordinamento giuridico italiano.
Più precisamente, l’art. 46 della Direttiva (Diritto a un ricorso effettivo) al par. 5 detta la regola generale per cui il richiedente ha diritto di attendere sul territorio dello stato membro la decisione del giudice sul merito del ricorso presentato[22]. Il paragrafo 6 stabilisce le eccezioni, chiarendo che in alcuni casi, il diritto a rimanere sul territorio dello Stato membro è limitato e sussiste solo fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva[23]. Tra queste eccezioni, è inclusa quella dell’art. 33 par. 2 lett. d): la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE. Il paragrafo 8 dell’art. 46 ribadisce il diritto in modo inequivocabile: “Gli Stati membri autorizzano il richiedente a rimanere nel territorio in attesa dell’esito della procedura volta a decidere se questi possa rimanere nel territorio, di cui ai paragrafi 6 e 7”.
L’art. 35, comma 5, è in definitiva da considerarsi illegittimo e non sembra suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata. Si prospetta dunque la disapplicazione da parte del giudice della norma in contrasto con le disposizioni sopra richiamate della direttiva procedure, idonee a produrre effetti diretti, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
TAB 5.
La domanda reiterata. Tabella
riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Procedura di ammissibilità: esame preliminare del presidente di Commissione (senza audizione) e decisione collegiale entro 5 giorni (art. 29 c. 1-bis e art. 28 c. 1-bis d.lgs 25/2008). Abrogata la possibilità per il richiedente di inviare memorie o integrazione entro 3 giorni dalla comunicazione dell’avvio della procedura di ammissibilità. | Ricorso proposto entro 30 giorni (art. 35-bis c. 2 D.Lgs. 25/2008); Sospensiva non automatica ma concedibile (art. 35-bis c. 3 lett. b) e c. 4 d.lgs 25/2008); Abrogato il diritto a rimanere sul territorio nazionale in attesa della decisione del giudice sull’istanza cautelare (art. 35-bis c. 5 d.lgs 25/2008). | La previsione di cui al c. 5 dell’art 35-bis è da ritenersi illegittima per contrarietà all’art. 41 della direttiva 2013/32/UE che prevede l’impossibilità di attendere sul territorio nazionale la decisione del giudice in merito all’istanza cautelare solo in ipotesi tassative che non comprendono questa ipotesi di domanda reiterata. |
5.1. La domanda reiterata in fase di esecuzione di un imminente allontanamento
Esistono viceversa, come accennato, due ipotesi in cui la Direttiva prevede una eccezione al diritto sopra illustrato di attendere la decisone del giudice sulla richiesta di sospensiva. Queste eccezioni sono previste dall’art. 41 della Direttiva procedure[24]. Si tratta dei due casi sopra menzionati, ovverosia quella del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41 lett. b) e quella del richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento”. I tali casi, l’art. 41 par. 2 lett. c) espressamente attribuisce agli stati membri la facoltà di escludere il paragrafo 8 dell’art. 46 (appena soprariportato), che attribuisce il diritto a rimanere sul territorio dello stato membro fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva. Il legislatore del dl 113/18 ha introdotto per queste due ipotesi una disciplina molto rigida. Il nuovo art. 29-bis (Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento) recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”. In maniera speculare, il nuovo art. 7 del d.lgs 25/08 (sempre modificato dal dl 113/18), rubricato Diritto di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda stabilisce che il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio italiano fino alla decisione della Commissione territoriale salvo che: lett. d) [abbia] presentato una prima domanda reiterata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale.
Bisogna quindi chiedersi, anzitutto, quale sia il significato della locuzione fase di esecuzione di un imminente allontanamento. Ma soprattutto, chi sia designato dalla norma a dichiarare inammissibile la domanda reiterata (ossia una seconda domanda di asilo) in fase di imminente esecuzione e con quale procedura, per valutare così la compatibilità o meno con la Direttive procedure. Si tratta di una operazione ermeneutica complessa, ma che si rende assolutamente necessaria, anche in ragione dell’enorme importanza pratica rivestita da questo istituto. Una importanza, che ancor meglio si può apprezzare dalla lettura della Circolare del Ministero dell’Interno (Commissione Nazionale) del 2 novembre 2019[25] che attribuisce alla Questura il compito di dichiarare inammissibile la domanda di asilo ai sensi dell’art. 29-bis e qualifica tale inammissibilità come automatica (non soggetta a prova contraria): “È stato, inoltre, previsto che nel caso in cui lo straniero presenti una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’allontanamento imminente dal territorio nazionale, la stessa è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento. Opera, dunque, in tale circostanza, iure et de iure, una presunzione di strumentalità correlata alla concomitanza di due condizioni riferite l’una alla preesistenza di una decisione definitiva sulla domanda precedente e l’altra alla circostanza che sia iniziata l’esecuzione del provvedimento espulsivo. La sussistenza di tali presupposti esclude, pertanto, l’esame della domanda. In tali casi, come concordato con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, la Questura competente comunicherà all’interessato l’inammissibilità della domanda sancita ex lege”. Sulla base di questa circolare, in molte questure italiane, è di fatto precluso l’esercizio del diritto di asilo a chi ha già presentato in passato una prima domanda di asilo. Infatti, molti di questi ultimi hanno già un decreto di espulsione (o di respingimento differito o di un ordine di allontanamento) nel momento i cui si presentano alle forze di polizia per la presentazione della seconda domanda di asilo. La Questura dunque provvede a dichiarare automaticamente la inammissibilità senza sottoporre il caso alla Commissione e senza neppure valutare l’esistenza o meno di nuovi elementi addotti. Dunque, la Questura procede all’esecuzione immediata dell’espulsione. Il cittadino straniero che ha provato a presentare una seconda domanda si ritrova così immediatamente in stato di trattenimento, teso al rimpatrio forzato per una decisione (vincolata) della Questura. Senonché, la direttiva 2013/32/UE stabilisce un principio opposto, secondo cui è sempre necessario che l’autorità accertante (in Italia la Commissione territoriale) proceda all’esame preliminare di una domanda reiterata (anche in fase di esecuzione di un imminente allontanamento), per valutare se sono stati sollevati nuovi elementi al fine di dichiararne la inammissibilità. Secondo la direttiva 2013/32/UE non c’è modo di attribuire in via automatica ad una domanda reiterata la qualifica di domanda inammissibile. La direttiva si limita a prevedere che in casi di imminente allontanamento dal Paese membro possa essere limitato il diritto del cittadino straniero a restare sul territorio dello stato durante la fase giudiziaria di impugnazione della dichiarazione di inammissibilità. La direttiva non ricollega alla imminenza dell’allontanamento alcuna conseguenza in termini di esame preliminare che l’autorità competente (in Italia, la Commissione) deve svolgere per accertarsi che esistano o meno elementi nuovi attinenti alla domanda di asilo.
Più precisamente, la direttiva sopra richiamata afferma al considerando 36 che: “Qualora il richiedente esprima l’intenzione di presentare una domanda reiterata senza addurre prove o argomenti nuovi, sarebbe sproporzionato imporre agli Stati membri l’obbligo di esperire una nuova procedura di esame completa”. Ciò che si ammette che gli Stati membri possano escludere è l’esame completo (ossia la nuova audizione del richiedente asilo) e non quello preliminare, infatti, l’art. 33 recita: “2. Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se: (…) d) la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE”. La domanda è inammissibile solo qualora non vi siano nuovi elementi, la cui emersione è possibile solo ad un esame preliminare. Prima di allora la domanda non può essere giudicata inammissibile. L’art. 40, inoltre, ribadisce che: “2. Per decidere dell’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d), una domanda di protezione internazionale reiterata è anzitutto sottoposta a esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rilevanti per l’esame dell’eventuale qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE […]. 5. Se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame ai sensi del presente articolo, essa è considerata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d)”. Solo se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame perché, ad un esame preliminare, non siano emersi elementi nuovi, essa può essere giudicata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d). L’art. 41 stabilisce, inoltre, che: “1. Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione”. L’imminente allontanamento rileva dunque ai soli fini di attribuire agli Stati membri la facoltà di circoscrivere il diritto di rimanere in Italia del richiedente asilo che a seguito di un esame preliminare abbia ricevuto una dichiarazione di inammissibilità e decida di avvalersi del diritto di proporre ricorso o riesame avverso tale decisione. L’art. 42 espressamente prevede, altresì, che: “1. Gli Stati membri provvedono affinché i richiedenti la cui domanda è oggetto di un esame preliminare a norma dell’articolo 40 godano delle garanzie di cui all’articolo 12, paragrafo 1. 2. Gli Stati membri possono stabilire nel diritto nazionale norme che disciplinino l’esame preliminare di cui all’articolo 40. Queste disposizioni possono, in particolare: a) obbligare il richiedente a indicare i fatti e a produrre le prove che giustificano una nuova procedura; b) fare in modo che l’esame preliminare si basi unicamente su osservazioni scritte e non comporti alcun colloquio personale, a esclusione dei casi di cui all’articolo 40, paragrafo 6. Queste disposizioni non rendono impossibile l’accesso del richiedente a una nuova procedura, né impediscono di fatto o limitano seriamente tale accesso. 3. Gli Stati membri provvedono affinché il richiedente sia opportunamente informato dell’esito dell’esame preliminare e, ove sia deciso di non esaminare ulteriormente la domanda, dei motivi di tale decisione e delle possibilità di presentare ricorso o chiedere il riesame della decisione”. Lo Stato membro, ai sensi dei paragrafi 1 e 2, può quindi disciplinare ma non eliminare l’esame preliminare (prevedendo una dichiarazione di inammissibilità sancita ex lege). Precisando inoltre al paragrafo 3 che il richiedente deve essere informato dell’esito dell’esame preliminare al fine di apprestare le proprie difese.
In definitiva, l’art. 29-bis, così come interpretato dal Ministero con la circolare sopra menzionata, sarebbe da considerare sicuramente contrario alla normativa europea e quindi destinato ad essere espunto dall’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, la norma può anche essere interpretata diversamente, in modo da attribuire alla Commissione il compito di analizzare la domanda di asilo anche in questo caso[26], tramite un esame preliminare (identico a quello già visto in relazione alla ordinaria domanda reiterata)[27]. L’art. 29-bis avrebbe dunque il solo effetto di non riconoscere il diritto a un ricorso effettivo. Ma in tal caso bisognerà chiedersi se la sopra illustrata deroga consentita dall’art. 41 all’art. 46 par. 8 (ossia al diritto di attendere una decisione del giudice sull’istanza di sospensiva) possa giustificare anche l’esclusione da tutte le garanzie dell’art. 46 e quindi, in definitiva, consentire il rimpatrio forzato del richiedente asilo immediatamente dopo la notifica della decisione di inammissibilità o se viceversa deve essere conservato il diritto di rimanere in Italia fino alla presentazione del ricorso (che sostanzialmente è la soluzione illegittima che il legislatore del dl 113/18 ha riservato alla domanda reiterata ordinaria).
In ogni caso, per evitare un uso eccessivamente ampio di questo strumento (come sembra stia accadendo) devono correttamente interpretarsi i concetti di esecuzione/imminente/ allontanamento. Per imminente allontanamento deve intendersi esclusivamente la condizione di chi si trovi nelle ipotesi in cui il processo espulsivo è in stato avanzato, tanto che la Pubblica Amministrazione non solo sia certa di poter coattivamente costringere il cittadino straniero al rimpatrio forzato (quindi che abbia già disposto il suo trattenimento), ma che al contempo abbia già portato a compimento il complesso iter organizzativo necessario in questi casi: fissazione di un appuntamento con l’autorità consolare per il previo riconoscimento e acquisizione del lasciapassare, individuazione certa del vettore e dello specifico volo verso il paese di origine con relativo ordine di spesa ed emanazione dell’ordine di servizio per le forze dell’ordine deputate nel caso specifico ad effettuare l’accompagnamento all’interno del territorio italiano ed eventualmente durante la scorta internazionale. L’art. 29-bis quindi non troverebbe applicazione in presenza di un mero decreto di espulsione a carico del cittadino straniero, ma esclusivamente nei casi di presentazione della domanda reiterata in una fase di reale imminenza del rimpatrio, ossia solo quando questo sia effettivamente in corso, a fronte di una già avvenuta individuazione del volo, del personale coinvolto e della specifica tempistica effettiva di rimpatrio.
Non può nascondersi, infatti, che molti cittadini stranieri non hanno di fatto la possibilità di esercitare appieno il diritto a richiedere la protezione internazionale, tanto più in presenza di un crescente utilizzo delle procedure accelerate e dell’approccio hotspot. Le prime, di fatto, mettono molti richiedenti nella condizione di affrontare l’audizione in Commissione e successivamente il ricorso avverso il diniego con pochissimi strumenti a causa della tempistica e delle condizioni di isolamento. Allo stesso tempo, l’approccio hotspot conduce moltissimi cittadini stranieri ad auto-dichiararsi al loro arrivo migranti economici, subendo così un decreto di respingimento differito o di espulsione che li conduce in stato di trattenimento e quindi ad affrontare ancora una volta la prima domanda di asilo (sempre che riescano nei Cpr a formalizzarla) in tempi strettissimi e con pochissimi strumenti. Ecco che dunque l’estrema rigidità con cui è stata disciplinata dal legislatore del dl 113/18 la domanda reiterata, oltre che per molti versi illegittima, appare pericolosamente nei fatti appartenere a una più ampia operazione di svuotamento del diritto di asilo.
Relativamente alla domanda reiterata, infine, sarà necessario nel tempo interpretare correttamente anche l’ipotesi prevista dal nuovo art. 7 comma 2 lett. e) del d.lgs 25/08 come modificato dall’art. 9 del dl 113/08, secondo cui, il richiedente perde il diritto di attendere in Italia la decisione della Commissione territoriale nel caso in cui manifesti “la volontà di presentare un’altra domanda reiterata a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 29, comma 1, o dopo una decisione definitiva che respinge la prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettere b) e b-bis)”. Si tratta del caso in cui il richiedente manifesti la volontà di presentare una terza (quarta, ecc.) domanda di asilo. In questo caso, conformemente alla Direttiva procedura (come sopra esposto) si disciplina diversamente la condizione del richiedente, che esprime la volontà, ancor prima di formalizzarla. Dal tenore delle norme della Direttiva, si evince chiaramente che in tal caso al richiedente non venga assicurato il diritto ad attendere che la Commissione si esprima, ma rimangono dubbi alcuni profili. In particolare, se deve comunque essergli riconosciuto il diritto di formalizzare la domanda di asilo prima del rimpatrio forzato (e quindi attendere nel proprio paese di asilo una eventuale decisone della Commissione) e se la convalida del suo trattenimento e dell’esecuzione del rimpatrio forzato debba considerarsi di competenza del Tribunale civile (come per tutti i casi di richiedenti asilo) o del giudice di pace (come per i casi dei cittadini stranieri non richiedenti asilo).
TAB 5.1.
La domanda reiterata in esecuzione di un provvedimento che
comporta l’imminente allontanamento. Tabella riassuntiva dei principali
riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Non si procede all’esame preliminare da parte dell’autorità accertante e la domanda è considerata inammissibile (art. 29-bis d.lgs 25/2008). Agisce iure et de iure una presunzione di strumentalità: l’inammissibilità è sancita ex lege (Circolare Commissione Nazionale 02.01.2019). Il richiedente non ha il diritto di attendere sul territorio nazionale l’esito dell’esame. Il richiedente non può attendere sul territorio l’esito dell’esame della CT (art. 7 c. 1 lett. d) d.lgs 25/08). | Dalla lettura delle modifiche introdotte sembrerebbe non sussistere il diritto a un ricorso effettivo. | Individuazione di chiari limiti alla nozione di “fase esecutiva di provvedimento che comporta l’imminente allontanamento”; Illegittimità per contrarietà alla Direttiva 2013/32/UE artt. 33, 40, 41, 42 la cui lettura esclude la possibilità di omettere l’esame preliminare da parte dell’autorità accertante; l’autorità accertante in Italia non può mai essere la Questura. Diritto a un ricorso effettivo: la deroga contenuta all’art. 41 della Direttiva al diritto a rimanere sul territorio non necessariamente può comportare una deroga completa alle garanzie contenute all’art. 46 della Direttiva relativamente al diritto a un ricorso effettivo. |
6. Il cd. procedimento immediato di cui all’art. 32 comma 1-bis d.lgs 25/08
L’art. 10 del dl 113/18 ha, infine, introdotto un nuovo istituto al comma 1.bis dell’art. 32 del d.lgs 25/08, secondo cui: “Quando il richiedente è sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui agli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16, comma 1, lettera d-bis), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e successive modificazioni, e ricorrono le condizioni di cui all’articolo 6, comma 2, lettere a), b) e c), del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva per uno dei predetti reati, il questore, salvo che la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale competente, ne dà tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione, valutando l’accoglimento della domanda, la sospensione del procedimento o il rigetto della domanda. Salvo quanto previsto dal comma 3, in caso di rigetto della domanda, il richiedente ha in ogni caso l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione. A tal fine si provvede ai sensi dell’articolo 13, commi 3, 4 e 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. In sostanza, nel caso in cui il richiedente asilo sia sottoposto a procedimento penale o sia stato condannato per taluni reati (tra cui alcuni di media gravità) viene sottoposto immediatamente all’audizione della Commissione territoriale, con una sorta di procedura accelerata. In caso di diniego[28] (anche in forza all’art. 35-bis comma 4 d.lgs 25/08) perde il diritto ad attendere in Italia non solo l’esito del ricorso ma anche quello della eventuale domanda cautelare di sospensione degli effetti del diniego stesso. Al pari di quanto sopra illustrato per il caso di inammissibilità della domanda reiterata “ordinaria” ex art. 29 comma 1 lett.b). Avrebbe dunque solo il diritto di rimanere in Italia per il tempo necessario a depositare il ricorso, ossia 30 giorni dalla notifica del diniego. Inoltre, nel caso in cui dovesse già trovarsi (al momento dell’apertura del procedimento penale) in sede di ricorso cesserebbero gli effetti della sospensione automatica, aprendo così la via al rimpatrio forzato immediato.
Brevemente, si tratta di una disposizione che va evidentemente incontro all’esigenza mediatica, più volte espressa da alcune forze politiche, di procedere in tempi rapidi al rimpatrio forzato di richiedenti asilo che vengono accusati di aver commessi dei reati. Tuttavia, come si evince chiaramente anche dalle norme già analizzate della Direttiva procedure, si tratta di una disposizione del tutto illegittima in quanto totalmente estranea alle ipotesi (tassative) che la Direttiva stessa ha previsto in deroga alla ordinaria procedura di asilo. E’ una norma destinata ad essere espunta dall’ordinamento giuridico italiano, seppur è immaginabile che troverà applicazione fino a quando il complesso iter giurisdizionale non ne decreterà la illegittimità.
Oltre alle ipotesi di procedura accelerata già analizzate e che sono state introdotte o riformate dal legislatore del dl 113/18, è opportuno ricordare che l’art. 28-bis d.lgs 25/08 ne prevede un’altra che non è stato oggetto di modifiche sostanziali. Questo articolo al comma 2 lett. c) stabilisce una procedura accelerata (14 gg per l’audizione e 4 per la decisione, prorogabili ai sensi del comma 3 dell’art. 28-bis) nei casi in cui il richiedente ha presentato “(…) la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento”. Ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08 il termine per proporre ricorso avverso il diniego della Commissione territoriale è ridotto a 15 giorni e non è previsto l’effetto sospensivo automatico del ricorso stesso (art. 35-bis comma 3). La previsione appare conforme alla Direttiva procedure.
TAB 6.
La procedura immediata.
Tabella riassuntiva dei principali riferimenti normativi e delle criticità.
Procedura amministrativa | Fase giudiziale | Principali criticità |
Audizione immediata e contestuale decisione della CT (art. 32 c. 1-bis d.lgs 25/2008). | In caso di rigetto della domanda da parte della CT, obbligo di lasciare il territorio nazionale anche in pendenza di ricorso (art. 32 c. 1-bis d.lgs 25/2008).Diritto a rimanere sul territorio fino alla scadenza dei termini per la presentazione del ricorso (30 giorni) ma non ad attendere esito dell’istanza cautelare. | Illegittimità per contrarietà alla direttiva 2013/32/UE poiché estranea alle ipotesi tassative di deroga alla procedura ordinaria. |
7. Considerazioni conclusive
In conclusione, le norme
introdotte in tema di procedure accelerate dal decreto 113/18 e dalla relativa
legge di conversione destano fortissima preoccupazione per la potenziale
capacità di svuotare, di fatto, il diritto di asilo, soprattutto se operate in
concomitanza con talune prassi illegittime (come quelle connesse al c.d
approccio hotpot) e in presenza di importanti carenze strutturali del sistema
italiano (privo in frontiera e nei Cpr di reali servizi di supporto e di
vigilanza). La riforma in parte sfrutta al massimo i margini lasciati aperti
dalla direttiva procedure 2013/32/UE e in parte sconfina nella aperta
illegittimità, anche se può leggersi in quest’ultima una forte propensione ad
anticipare con grande zelo le nuove politiche legislative che da anni vengono
promosse dalla Commissione Europea, che già a partire dal maggio del 2015 (con
la prima agenda sulle immigrazioni) sostiene uno stravolgimento del Ceas (il
sistema europeo comune di asilo), non da ultimo anche con le proposte di
riforma dell’aprile 2016[29].
Una complessa riforma, bloccata nel 2019 dalla fine del mandato europeo, che
immagina un sistema che conservi un’impeccabile impalcatura di principi
generali in cui l’Unione Europea riesca a specchiare la propria superiorità
giuridica e culturale, ma che allo stesso tempo si munisca di strumenti che
possano ridurre drasticamente il numero delle persone che riescono a
raggiungere l’Europa per avanzare la domanda di asilo (c.d. esternalizzazione)
e riescano ad incanalare questi ultimi in una serie di procedure di eccezione
(che di fatto sostituiscono la regola) con cui si riducono drasticamente di
fatto le possibilità di ottenere una protezione internazionale, condannando per
lo più i cittadini stranieri giunti sul territorio dell’UE ad una condizione di
subalterna irregolarità. Un ritorno ad una concezione elitaria del diritto di
asilo, dove a fronte di ampie dichiarazioni di principio si aprono canali reali
di protezione internazionale solo per pochi altamente scolarizzati o con un
ruolo politicamente strategico a cui chiedere un atto di abiura nei confronti
del proprio paese di origine.
[1] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione);
[2] Per una più ampia disamina relativa ai profili di illegittimità costituzionale delle norme introdotte dal dl 113/2018, si veda l’analisi pubblicata da Asgi nell’ottobre del 2018.
[3] Si veda la Direttiva 2013/32/UE, in particolare l’articolo 31 par. 8 (che individua le ipotesi in cui possono essere applicate procedure accelerate e/o in frontiera) e il par. 9 che stabilisce che “gli Stati membri stabiliscono termini per l’adozione di una decisione nella procedura di primo grado di cui al par. 8. I termini sono ragionevoli”. Si veda, inoltre, l’art. 46 parr. 6, 7 e 8 circa l’effetto sospensivo della presentazione del ricorso;
[4] Agenda Europea sulla migrazione, Bruxelles, 13.5.2015 COM(2015) 240 final;
[5] Per un’analisi più approfondita dell’approccio hotspot si veda: Scenari di frontiera: il caso Lampedusa; e Detention and Selection: An Overview of the Italian Hotspot System
[6] Non sembra che ad oggi sia mai stata utilizzata questa nuova forma di detenzione, che appare chiaramente in contrasto con l’art. 13 della Costituzione italiana. Nell’ambito del progetto In Limine, Asgi ha chiesto e ottenuto informazioni in tal senso dal Ministero dell’Interno e dalle Prefetture competenti, che, in base alla Circolare ministeriale del 27 dicembre, sono incaricate di individuare gli appositi locali adibiti al trattenimento dei richiedenti asilo. Ad oggi alcuna Prefettura ha infatti individuato gli “appositi locali” in cui eseguire il trattenimento. Si veda: Il trattenimento dei richiedenti asilo negli hotspot tra previsioni normative e detenzione arbitraria.
[7] Si veda a tal proposito il lavoro svolto da Asgi, Cild, ActionAid e IndieWatch nell’ambito del progetto In Limine per quanto riguarda i ricorsi presentati alla Corte Edu; il lavoro di monitoraggio e denuncia delle pratiche di trattenimento arbitrario: Il trattenimento dei richiedenti asilo negli hotspot tra previsioni legali e detenzione arbitraria; Da un confinamento all’altro, il trattenimento illegittimo nell’hotspot di Messima dei migranti sbarcati dalla sea watch; e il lavoro svolto in relazione alla procedura di supervisione della sentenza Khlaifia in collaborazione con A Buon Diritto: L’attualità del caso Khlaifia; Hotspot, l’Italia continua a violare il diritto alla libertà personale dei migranti; Considerazioni a cura del progetto In limine relative all’attuale funzionamento del centro hotspot di Lampedusa alla luce delle violazioni riscontrate dalla Corte nella sentenza Khlaifia e altri c. Italia; Communication from NGOs (Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI) and A Buon Diritto Onlus) (13/08/2019) in the case of Khalaifia and others v. Italy.
[8] A tal proposito si vedano i numerosi approfondimenti condotti circa l’utilizzo del foglio notizie e le problematiche legate alle modalità di compilazione dello stesso e le denunce presentate dalla società civile: Detention and Selection: An Overview of the Italian Hotspot System (University of Oford, 2018); Determinazione della condizione giuridica in hotspot (ASGI, 2019); Aida Report, section on Italian Hotspots; Rapporto del Garante Nazionale sulle visite nei centri CIE e negli hotspot in Italia; La verità sul sistema Hotspot: le violazioni e illegalità a Lampedusa denunciate dalle associazioni (ASGI, 2016).
[9] Questa lettura era stata già in passato sistematicamente sostenuta dalle Forze di polizia nell’ambito di una norma che richiama l’identica nozione allo scopo di determinare quali categorie di soggetti fossero obbligati ad essere accolti nei cd. CARA. Il Tribunale di Roma con l’ordinanza dd 13.04.2010 aveva già chiarito sul punto che: “le fattispecie per le quali è disposta l’ ‘ospitalità’ presso il centro Cara sono disciplinati per legge e non sono suscettibili di interpretazione estensiva perché di fatto incidono sul diritto alla libera circolazione del richiedente asilo (l’allontanamento dal centro senza giustificato motivo comporta, tra l’altro, che la Commissione territoriale possa decidere senza la previa audizione del richiedente, cfr. art 21 del d.lgs 25/08) e debbono poter essere esaminati e verificati dal giudice in sede di ricorso avverso il provvedimento amministrativo e di preliminare istanza di sospensione del provvedimento impugnato”. V. anche Trib. di Roma sent. n. 733 del 10.12.2012.
[10] Dal Devoto-Oli, Dizionario della Lingua italiana, Le Monnier, 2011.
[11] Decreto 5 agosto 2019, Individuazione delle zone di frontiera o di transito ai fini dell’attuazione della procedura accelerata di esame della richiesta di protezione internazionale, pubblicato in CU Serie Generale n. 210 del 07.09.2019.
[12] A tal proposito si veda inoltre il commento di Asgi al dm del 5 agosto del 2019.
[13] Si veda, sul punto, la nota condivisa di Asgi, ActionAid, Arci, Borderline Sicilia, IndieWatch, MEDU, SeaWatch sulla situazione dei migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 in condizione di detenzione arbitraria a Messina, Sa un confinamento all’altro. Il trattenimento illegittimo nell’hotspot di Messina dei migranti sbarcati dalla SeaWatch, 10.07.2019.
[14] Si noti come il modello di procedura di frontiera disegnato dalla “Direttiva procedure” prevede un terzo elemento caratterizzante questa fattispecie, ossia la possibilità di detenere per un tempo massimo di 4 settimane il richiedente asilo in frontiera o zona di transito allo scopo di condurre la procedura di frontiera medesima. Tuttavia, il legislatore italiano ha preferito immaginare una forma di detenzione amministrativa simile ma differente, ossia quella sopra analizzata del trattenimento a scopo identificativo nei cd. hotspot e negli hub. Una procedura che nei fatti potrebbe molto somigliare alla detenzione in frontiera ma che giuridicamente si incardina su altre motivazioni, ossia sull’esigenza di identificazione, che probabilmente è apparsa al legislatore del dl 113/08 più vicina ai canoni costituzionali (rispetto a una detenzione basata esclusivamente sull’arrivo in frontiera).
[15] Le ipotesi di procedura accelerata previste dall’art. 31 c. 8 della direttiva 2013/32 sono le seguenti:
- “a) nel presentare domanda ed esporre i fatti il richiedente ha sollevato soltanto questioni che non hanno alcuna pertinenza per esaminare se attribuirgli la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE; oppure
- il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva; o
- il richiedente ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi od omettendo informazioni pertinenti o documenti relativi alla sua identità e/o alla sua cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente; o
- è probabile che, in mala fede, il richiedente abbia distrutto o comunque fatto sparire un documento d’identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza; o
- il richiedente ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie, palesemente false o evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul paese di origine, rendendo così chiaramente non convincente la sua asserzione di avere diritto alla qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE; o
- il richiedente ha presentato una domanda reiterata di protezione internazionale inammissibile ai sensi dell’art. 40, paragrafo 5; o
- il richiedente presenta la domanda al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione anteriore o imminente che ne comporterebbe l’allontanamento; o
- il richiedente è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno e, senza un valido motivo, non si è presentato alle autorità o non ha presentato la domanda di protezione internazionale quanto prima possibile rispetto alle circostanze del suo ingresso; oIT l. 180/78 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea;
- il richiedente rifiuta di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce «Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e sulle richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto ( 1 ); o
- il richiedente può, per gravi ragioni, essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro o il richiedente è stato espulso con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza o di ordine pubblico a norma del diritto nazionale.”
[16] Inoltre, da una attenta lettura dell’art. 35-bis comma 2 (che stabilisce i casi di dimezzamento del termine di impugnazione) si potrebbe dedurre che i termini sono dimezzati solo nel caso in cui la manifesta infondatezza (anche eventualmente per provenienza da paese di origine sicuro) sia dichiarata a seguito di una procedura accelerata e non anche di una procedura ordinaria. Infatti l’art. 35-bis comma 2 richiama l’art. 28-bis, ossia quello delle procedure accelerate (e non invece l’art. 28-ter o l’art. 32 comma 1 b-bis, che disciplinano in generale la manifesta infondatezza derivante sia da procedura ordinaria che accelerata). Sarebbe dunque la natura accelerata della procedura (coniugata con la motivazione di manifesta infondatezza del diniego) a comportare la contrazione del termine per l’impugnazione. Sul punto si dovrà necessariamente ritornare in separata sede, per una lettura più analitica delle norme e degli spunti giurisprudenziali.
[17] Una corretta lettura dovrebbe portare a ritenere che la mancanza di effetto sospensivo sia esclusivamente ricollegata all’adozione di una procedura accelerata. Nel caso in cui non venga adottata una tale procedura (con il correlativo rispetto della tempistica prevista) si dovrà ritenere che il ricorso avverso il diniego abbia effetto sospensivo automatico (salvo ovviamente che il diniego rechi la dicitura di manifesta infondatezza, che comporterebbe il ricadere in una diversa ipotesi in cui il ricorso viene privato del suo ordinario effetto sospensivo automatico). Il punto non può che essere affrontato con maggiore analiticità in una differente sede.
[18] Ministero dell’Interno – Commissione nazionale per il diritto di asilo, Circolare prot. 00003718 del 30.07.2015 avente ad oggetto “Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Casi di manifesta infondatezza dell’istanza”.
[19] Corte d’Appello di Napoli, sent. n. 2963 del 27.06.2017.
[20] Direttiva procedure art. 46 par. 5. Fatto salvo il par. 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. Par. 6. Qualora sia stata adottata una decisione: a) di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’art. 32, par. 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, par. 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, par. 8, lettera h).
[21] Infatti, il legislatore non si è avvalso della clausola di cui al par. 4 art. 40 Direttiva procedure, secondo cui: “Gli Stati membri possono stabilire che la domanda sia sottoposta a ulteriore esame solo se il richiedente, senza alcuna colpa, non è riuscito a far valere, nel procedimento precedente, la situazione esposta nei parr. 2 e 3 del presente articolo, in particolare esercitando il suo diritto a un ricorso effettivo a norma dell’articolo 46.”
[22] Par. 5 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso”.
[23] Par. 6 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Qualora sia stata adottata una decisione: (…) b) di ritenere inammissibile una domanda a norma dell’articolo 33, paragrafo 2, lettere a), b) o d); (…) un giudice è competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e, ove il diritto nazionale non preveda in simili casi il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso”.
[24] “Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione; o b) manifesti la volontà di presentare un’altra domanda reiterata nello stesso Stato membro a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, o dopo una decisione definitiva che respinge tale domanda in quanto infondata”.
[25] Ministero dell’Interno – Commissione Nazionale per il Diritto d’asilo, Circolare prot. n. 0000001 del 02.01.2019 avente ad oggetto Decreto-legge del 4 ottobre 2018, n. 113, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata’, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132;
[26] Più precisamente, anzitutto bisogna rilevare che la direttiva 2013/32/UE sin dai considerando (in particolare n. 16) prevede che: “È indispensabile che le decisioni in merito a tutte le domande di protezione internazionale siano adottate sulla base dei fatti e, in primo grado, da autorità il cui organico dispone di conoscenze adeguate o ha ricevuto la formazione necessaria in materia di protezione internazionale”. Tale autorità è quella che nel prosieguo della direttiva è definita “autorità accertante”. In Italia, tale ruolo è assolto dalle Commissioni territoriali nominate dal Ministero dell’interno. La direttiva ammette che in luogo dell’autorità accertante alcune specifiche funzioni in materia siano svolte da altra autorità, purché adeguatamente formata. L’art. 4 della Direttiva “Autorità responsabili”, infatti, prevede che: “1. Per tutti i procedimenti gli Stati membri designano un’autorità che sarà competente per l’esame adeguato delle domande a norma della presente direttiva. (…) 2. Gli Stati membri possono prevedere che sia competente un’autorità diversa da quella di cui al paragrafo 1 al fine di: a) trattare i casi a norma del regolamento (UE) n. 604/2013 [c.d. Regolamento Dublino, ndr]; e b) accordare o rifiutare il permesso di ingresso nell’ambito della procedura di cui all’articolo 43, secondo le condizioni di cui a detto articolo e in base al parere motivato dell’autorità accertante [c.d. Procedure di frontiera, ndr].”. Inoltre, ai sensi dell’art. 34 “Norme speciali in ordine al colloquio sull’ammissibilità”: “[…] 2. Gli Stati membri possono disporre che il personale di autorità diverse da quella accertante conduca il colloquio personale sull’ammissibilità della domanda di protezione internazionale. In tal caso gli Stati membri provvedono a che tale personale riceva preliminarmente la necessaria formazione (…)”.
Le competenze che possono essere attribuite ad autorità diversa da quella accertante possono riguardare, quindi, l’applicazione del cd. Regolamento Dublino e le procedure di frontiera (entrambe estranee al caso in esame), nonché la possibilità di condurre anche nei procedimenti sulle domande reiterate il colloquio del richiedente, ma non anche di assumere la decisione sulla domanda. Si consideri tuttavia che il colloquio con il richiedente costituisce una misura differente rispetto all’esame preliminare teso a valutare l’esistenza di elementi nuovi: si tratta di un eventuale fase del procedimento di inammissibilità a garanzia del richiedente che tuttavia nel caso di domande reiterate può essere escluso dal legislatore di ciascun Paese membro. Così come infatti ha deciso di fare il legislatore italiano che ha semplicemente escluso la fase del colloquio del richiedente nei casi di domanda reiterata. Per cui in Italia non è previsto il colloquio, ossia l’unica fase nel procedimento di valutazione della prima domanda reiterata che poteva essere affidata ad una autorità diversa (ossia alla Questura). Infatti ai sensi dell’art. 34 paragrafo 1 “Prima che l’autorità accertante decida sull’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale, gli Stati membri consentono al richiedente di esprimersi in ordine all’applicazione dei motivi di cui all’articolo 33 alla sua situazione particolare. A tal fine, gli Stati membri organizzano un colloquio personale sull’ammissibilità della domanda. Gli Stati membri possono derogare soltanto ai sensi dell’articolo 42, in caso di una domanda reiterata”. La Direttiva quindi rende obbligatorio l’esame preliminare (valutazione cartacea sulla base della domanda scritta del richiedente) ma facoltativo il colloquio (unica fase affidabile ad una autorità diversa). In attuazione della Direttiva, l’art. 29 del D.lgs. n. 25/2008 “casi di inammissibilità della domanda” esclude il colloquio in caso di domanda reiterata, prevedendo espressamente che il Presidente delle Commissione Territoriale conduca un esame preliminare sulla domanda. A sua volta, l’art. 29-bis del Dl.lgs. n.25/2008, recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”, nulla aggiungendo in merito alla competenza a giudicare inammissibile la domanda reiterata. Dunque si potrebbe interpretare l’art. 29-bis in modo differente da quanto proposto dal Ministero con la circolare del 2.01.2019 e con il decreto di inammissibilità qui impugnato.
[27] Il Tribunale di Roma ha avuto modo di esprimersi in differenti occasioni annullando il decreto di inammissibilità emanato dalla Questura per difetto di competenza, ribadendo che si tratta di una prerogativa della Commissione, cfr. Trib. di Roma, decreto dd. 03.04.2019. Si veda, sul punto, G. Savio, Accesso alla procedura di asilo e poteri “di fatto” delle Questure, in Questione Giustizia;
[28] Si dovrà comunque valutare anche l’esistenza di una necessità di riconoscere ai sensi dell’art. 32 comma 3 una protezione speciale, ossia il ricorrere delle condizioni di non refoulement di cui all’art. 19 comma 1 e 1.1 del D.lgs 286/98.
[29] Sul punto si veda: Asgi, I nuovi orientamenti politico-normativi dell’Unione Europea – La prospettiva di nuove e radicali chiusure al diritto di asilo, settembre 2017.
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