Le nostre indicazioni a uso degli operatori giuridici per dirimere alcuni dei molti dubbi interpretativi ancora sussistenti in questa complessa, quanto importante, materia.
Abbiamo provveduto all’aggiornamento del documento inserendo le ultime novità giurisprudenziali (TAR e Consiglio di Stato). In particolare si segnala che sono state inseriti aggiornamenti alle seguenti domande:
Aggiornamento del 4 agosto 2021
L’art. 103 del D.L. 34 del 2020 prevede tre ipotesi di regolarizzazione dei lavoratori stranieri:
- una procedura di emersione per chi era già occupato irregolarmente;
- una procedura di emersione per lavoratori con un’offerta di assunzione;
- la possibilità di rilascio di un permesso temporaneo semestrale, convertibile in un titolo per lavoro in caso di instaurazione di un rapporto di lavoro prima della sua scadenza.
Per tutte le procedure rilevano soltanto i rapporti di lavoro nei seguenti settori:
- agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse;
- assistenza alla persona per il datore di lavoro o per componenti della sua famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;
- lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.
Il dettato normativo sin da subito ha dimostrato incongruenze e previsioni poco chiare. A ciò si è aggiunto l’affastellarsi di indicazioni ministeriali – tramite note, circolari, FAQ – spesso contraddittorie e talvolta persino illegittime e contrastanti con la previsione di legge.
Infine il grave ritardo nella conclusione delle procedure sta ulteriormente infierendo sulla condizione giuridica di centinaia di migliaia di migranti, che si vedono costretti a dover attendere gli esiti di un’incerta e spesso arbitraria decisione amministrativa sulla loro vita.
In questo quadro non certo positivo, ASGI intende fornire delle indicazioni a uso degli operatori giuridici per dirimere alcuni dei molti dubbi interpretativi ancora sussistenti in questa complessa, quanto importante, materia.
Questioni generali alle tre procedure
1. Quali sono le cause ostative alla regolarizzazione relative al datore di lavoro?
Sono causa di inammissibilità delle istanze di emersione cui ai commi 1 e 2 le condanne – riportate negli ultimi 5 anni – anche non definitive, comprese quelle per patteggiamento, per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, limitatamente alle ipotesi di cui all’art. 12, co. 1 e 3 TU (favoreggiamento dell’ingresso illegale e dell’emigrazione illegale), 600 cp (riduzione in schiavitù), 603 bis cp (caporalato e sfruttamento lavorativo) e 22, co. 12 TU (assunzione di lavoratori privi di permesso di soggiorno che consenta l’attività lavorativa, quindi il datore di lavoro che fa emergere il lavoro irregolare si autodenuncia). Queste cause ostative operano sia nelle ipotesi di cui al comma 1 e, per quanto concerne il comma 2 “limitatamente alle ipotesi di conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro”.
Quanto al significato del limite per le ipotesi del comma 2, vuol dire che la causa ostativa in questione opera nel caso in cui il titolare di permesso di soggiorno di sei mesi trovi lavoro in una delle categorie di cui al comma 3 e, quindi, converta il titolo semestrale in permesso per lavoro. Il che è logico perché durante i primi 6 mesi non si instaura subito un rapporto di lavoro, quindi non può essere causa ostativa alla regolarizzazione semestrale, proprio perché è svincolata dal reperimento immediato del lavoro.
E’ comunque grave prevedere l’inammissibilità delle condanne ostative per fatti propri del datore di lavoro (ignoti e indipendenti dal lavoratore), senza prevedere il rilascio di un permesso per attesa occupazione.
Costituiscono ulteriori cause di rigetto (e non d’inammissibilità) delle istanze di cui al punto che precede la mancata sottoscrizione del contratto di soggiorno, ovvero la mancata assunzione (salvo i casi di forza maggiore) comunque intervenute a seguito di procedure di ingresso per motivi di lavoro subordinato o di procedure di emersione di lavoro irregolare.
Questa previsione inerisce a inadempimenti del datore di lavoro “comunque intervenuti”, quindi in passato in procedure di ingresso per lavoro o di emersione, in cui il datore di lavoro non ha poi terminato l’iter o non sottoscrivendo il contratto di soggiorno, ovvero senza procedere all’assunzione. Insomma, procedure “lasciate a metà”, senza che sia intervenuta condanna per favoreggiamento dell’immigrazione illegale (perché altrimenti la condanna sarebbe di per sé ostativa) ovvero se la condanna è anteriore al quinquennio (perché in tal caso non è ostativa, secondo la previsione del comma 7). Non si comprendono le ragioni di tale scelta normativa dato che ne fa le spese il lavoratore su cui ricadrebbe l’onere – davvero diabolico – non solo di verificare se il datore ha subito condanne nell’ultimo quinquennio, ma pure se in precedenza avesse fatto richiesta di assunzione di lavoratori stranieri senza portarla a termine: ad impossibilia nemo tenetur! Sicché è irragionevole la mancata previsione del rilascio di un permesso per attesa occupazione in questi casi. Tale permesso è previsto (al comma 4) solo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, non anche in presenza di cause ostative proprie del datore di lavoro che nemmeno fanno legalmente sorgere il rapporto.
2. Quali provvedimenti di espulsione sono ostativi alla regolarizzazione?
Sono ostative le pregresse espulsioni emesse dal Ministero dell’Interno o per motivi di prevenzione del terrorismo, anche internazionale, e le espulsioni per motivi di pericolosità sociale ex art. 13, co. 2, lett. c) T.U. mentre non sono ostative le espulsioni prefettizie per ingresso e/o soggiorno illegale (art. 13, co. 2, lett. a) e b) T.U).
Quanto alle espulsioni ostative ovviamente non debbono essere state eseguite, poiché lo straniero si trova in Italia, ovvero, dovrebbero non essere ostative se eseguite ma è decorso il termine di divieto di reingresso e il destinatario abbia fatto reingresso in Italia dopo il decorso di tale termine, anche eludendo i controlli di frontiera, perché le espulsioni per irregolarità dell’ingresso o del soggiorno (art. 13, co. 2, lett. a) e b) TU) non sono ostative all’emersione di cui ai commi 1 e 2.
Quanto alle persone precedentemente espulse per una tipologia di espulsione non ostativa, nei casi in cui lo straniero abbia fatto reingresso illegale in Italia, queste continuano a non essere ostative, purché il reingresso sia avvenuto prima dell’8 marzo 2020 (ipotesi applicabile solo per i casi di cui al comma 1), e dovrebbe sospendersi il procedimento penale per violazione dell’art. 13 co. 13 T.U (che punisce il reingresso illegale dello straniero espulso).
Nulla è previsto per le ipotesi di pregresso respingimento alla frontiera – immediato o differito – disposto ex art. 10 co. 1 e 2, TU, che pertanto non rientrano nelle cause ostative.
3. Quali condanne sono ostative alla regolarizzazione?
Sono ostative le condanne – comminate nei confronti del lavoratore anche con sentenze non definitive o patteggiate – per i reati per cui è ordinariamente vietato l’ingresso o il soggiorno in Italia ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 4, co. 3 e 5, co. 5 TU., mentre le sentenze di condanna per i reati per cui è previsto l’arresto facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.) possono essere valutate nell’ambito di una più ampia valutazione della pericolosità sociale (quindi per queste condanne non è previsto alcun automatismo preclusivo).
Si rammenta che occorre far riferimento ai titoli di reato per cui v’è stata condanna, indipendentemente dalla gravità del fatto o dall’entità della pena irrogata, anche se condizionalmente sospesa. Le condanne penali, per essere ostative, debbono avere ad oggetto i seguenti titoli di reato: tutti i reati indicati nell’art. 380 c.p.p., oltre ai reati in materia di stupefacenti (comprese le ipotesi lievi ex art. 73, co, 5, d.P.R. 309/90, a seguito della sentenza Corte cost. n. 277/2014), tutti i delitti contro la libertà personale ( qui occorre verificare perché il testo dell’art. 4, co. 3, TU – che per il resto è identico a questa formulazione – fa riferimento ai delitti contro la libertà sessuale, quindi potrebbe trattarsi di un errore), il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o i reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite.
Un’interessante ordinanza cautelare del TAR Emilia Romagna, Bologna, n. 121/2021 (RG. 139/2021) ha sospeso l’efficacia di un provvedimento di rigetto della domanda di regolarizzazione motivato su una condanna penale, affermando che “Ritenuto, ad un sommario esame, di poter apprezzare favorevolmente le esigenze cautelari atteso che l’impugnato rigetto, motivato unicamente da condanna seppur irrevocabile risalente al 2012, ne presuppone il carattere automaticamente espulsivo in aperta violazione oltre che dello stesso c. 10 dell’art. 103 d.l. 34/2020 dei consolidati principi vigenti in “subiecta materia” (ex multis Consiglio di Stato sez. III, 2 novembre 2020, n. 6756) essendo indispensabile la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale.”
4. Che rilievo hanno l’estinzione del reato o della pena sulla domanda di regolarizzazione?
La riabilitazione (art. 178 c.p.) ed altri istituti come l’estinzione del reato dopo patteggiamento di cui all’art. 445 c.p.p. o a seguito di decreto penale ex art. 460, c. 5, c.p.p., l’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale e l’affidamento terapeutico di cui agli artt. 47, 47 bis legge 354/1975 (ordinamento penitenziario), comportano che la condanna ed il patteggiamento per un reato, di cui all’ elenco dell’art. 103 co 10, lett. c, d.l. 34/2020, non siano automaticamente ostativi alla procedura di emersione.
In tali casi, dovrà esserci un’attività discrezionale della P.A. che dovrà ponderare l’elemento negativo del precedente penale con altri elementi quali la durata del soggiorno in Italia ed i legami sociali, familiari e lavorativi.
Occorre una precisa declaratoria di estinzione degli effetti penali da parte del Tribunale di Sorveglianza (nel caso di riabilitazione ed affidamento in prova) o del Giudice dell’esecuzione (nel caso di estinzione del reato ex art. 445 c.p.p.). Non è sufficiente che sia trascorso il tempo necessario previsto dalla norma (5 anni ex art. 445 cpp; 3 anni ex art. 179 cp) per presentare le relative istanze di estinzione degli effetti penali.
Rilevano, quali elementi sopravvenuti, anche la riabilitazione e l’estinzione ex art. 445 c.p.p. intervenuti successivamente alla presentazione della domanda di regolarizzazione, se sono precedenti all’adozione della decisione della P.A.
L’indulto (legge 241/2006) non estingue il reato. Quindi lo straniero “indultato” non potrà beneficiare dell’emersione.
5. Le segnalazioni di non ammissione nel territorio degli Stati aderenti alla convenzione di Schengen sono ostative al positivo esito della domanda di emersione?
La disciplina dell’emersione di cui al D.L. n. 34 del 2020 prevede come ostative le segnalazioni di non ammissione nel territorio degli Stati Schengen, senza distinguere sulle ragioni che hanno determinato l’emissione di tale provvedimento. Ciò costituisce certamente un dato illogico e irragionevole posto che dette segnalazioni possono essere state inserite da altri Stati aderenti alla omonima convenzione anche per irregolarità dell’ingresso o del soggiorno. Sarebbe davvero paradossale precludere la regolarizzazione ad uno straniero espulso da altro Stato europeo per irregolarità amministrativa dell’ingresso o del soggiorno quando, invece, analoga espulsione disposta dall’Italia non è ostativa.
In tal senso si è espresso recentemente il TAR Piemonte che, con un’ordinanza cautelare nel giudizio n. 868/2020, ha affermato che ritenere ostative all’emersione le segnalazione Schengen per mero ingresso irregolare costituirebbe una disparità di trattamento rispetto al trattamento ben più favorevole accordato ai destinatari di provvedimenti espulsivi italiani per le medesime ragioni.
Dovrà quindi prevedersi che l’amministrazione effettui – in caso di segnalazione Schengen ai fini dell’inammissibilità del richiedente – uno specifico accertamento volto a verificare i motivi (ostativi o meno) della segnalazione operata da altro Stato aderente alla convenzione Schengen. Al proposito, non dovrebbe esser sufficiente un accesso agli atti tramite SIS (sistema informativo Schengen) ma occorrerebbe interrogare il sistema SIRENE, cosa che può essere effettuata solo dalla PA.
6. È necessario dimostrare allo Sportello Unico per l’immigrazione l’idoneità dell’alloggio del lavoratore?
L’idoneità alloggiativa non è prevista come requisito per il perfezionamento della procedura emersiva né dall’art. 103 del D.L. 34 del 2020 né dal decreto interministeriale del 27 maggio 2020.
Ciò è parso coerente con il fatto che il beneficiario della procedura è un cittadino straniero già presente sul territorio e con la ratio dell’emersione che è quella di garantire un soggiorno legale nel Paese a quanti più lavoratori irregolari possibile, indipendentemente dalle condizioni materiali di vita.
Tuttavia le successive circolari ministeriali e, conseguentemente, gli Sportelli Unici Immigrazione della Prefettura richiedono la produzione dell’attestazione di idoneità alloggiativa dell’immobile in cui il lavoratore straniero era collocato al momento della domanda stessa, o quantomeno la prova dell’invio della relativa domanda al Comune.
Ciò sta creando notevoli problemi, dato che i lavoratori, non essendo in una posizione di regolarità al momento della presentazione dell’istanza, potevano non avere la disponibilità di un alloggio che avesse i requisiti richiesti per il rilascio dell’attestazione e si trovano costretti a reperire un’ospitalità o una soluzione abitativa idonea pena il rischio di perdere la possibilità di regolarizzazione; il che risulta particolarmente ostico nei casi d’intervenuta cessazione del rapporto di lavoro o di decesso del datore.
Si ritiene quindi opportuno ricostruire l’istituto in questione.
Occorre considerare che l’attestazione d’idoneità alloggiativa va inquadrata nel contesto delle norme che disciplinano il contratto di soggiorno, cui l’art. 103, comma 9, DL n. 34 del 19 maggio 2020 fa espressamente riferimento: “Costituisce altresì causa di rigetto delle istanze di cui ai commi 1 e 2, limitatamente ai casi di conversione del permesso di soggiorno in motivi di lavoro, la mancata sottoscrizione, da parte del datore di lavoro, del contratto di soggiorno presso lo sportello unico per l’immigrazione ovvero la successiva mancata assunzione del lavoratore straniero, salvo cause di forza maggiore non imputabili al datore medesimo, comunque intervenute a seguito dell’espletamento di procedure di ingresso di cittadini stranieri per motivi di lavoro subordinato ovvero di procedure di emersione dal lavoro irregolare.”
Il “contratto di soggiorno” è un istituto procedurale relativo alla conclusione dei primi rapporti di lavoro con i cittadini extracomunitari, introdotto dall’art. 5 bis TU Immigrazione, come modificato dalla c.d. legge Bossi-Fini (art. 6, L. 30 luglio 2002, n. 189). Tale norma prevede infatti che:
“Il contratto di soggiorno per lavoro subordinato stipulato fra un datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante in Italia e un prestatore di lavoro, cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea o apolide, contiene: a) la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”.
La norma sostanzialmente creava in capo al datore di lavoro che volesse fare entrare un lavoratore straniero tramite il c.d. Decreto flussi anche l’onere di garantire la presenza di un alloggio che avesse i requisiti minimi previsti per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica. La presenza di tali requisiti e il numero di persone che un alloggio può ospitare nel rispetto di tali requisiti vengono appunto determinati dall’attestazione di idoneità alloggiativa.
Le modalità di elaborazione dell’attestazione di idoneità alloggiativa sono state dapprima chiarite dalla circolare del Ministero dell’Interno n. 7170 del 18 novembre 2009 la quale precisava che la certificazione relativa all’idoneità abitativa avrebbe dovuto fare riferimento alla normativa contenuta nel Decreto ministeriale 5 luglio del 1975 che stabilisce i requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione e che precisa anche i requisiti minimi di superficie degli alloggi, in relazione al numero previsto degli occupanti.
Successivamente la circolare del Ministero dell’Interno n. 3 del 17 Aprile 2012, ha specificato che l’idoneità abitativa è attestazione di conformità tecnica resa dagli Uffici tecnici comunali, non ha quindi natura di certificato e non può essere sostituita da autocertificazione. Inoltre per la redazione della stessa i competenti uffici comunali devono fare riferimento alla singole normative regionali in tema di edilizia.
La giurisprudenza ha poi avuto modo di pronunciarsi anche con riferimento alla richiesta di attestazione d’idoneità alloggiativa durante le precedenti procedure di emersione. In proposito si veda l’interessante sentenza del Tar Lazio, n. 9856 del 18 novembre 2013, con riferimento alla presentazione di un’attestazione d’idoneità alloggiativa falsa nell’ambito della c.d. Sanatoria colf badanti del 2009. Il ricorrente nel caso citato aveva impugnato il provvedimento con il quale lo Sportello Unico aveva rigettato la domanda di emersione presentata a suo favore dal datore di lavoro, per la falsità dell’attestazione d’idoneità igienico sanitaria dell’alloggio del richiedente consegnata a seguito dell’istanza di regolarizzazione. Secondo l’amministrazione, detta falsità determinava la nullità del contratto di soggiorno ex art. 1 ter, comma 12, del d.l. n. 78/2009 convertito dalla l. 102/2009 e l’inammissibilità dell’istanza, in alcun modo sanabile con la produzione di un nuovo certificato di idoneità alloggiativa. Il Tar Lazio ha invece accolto l’istanza cautelare del ricorrente, ordinando all’amministrazione di provvedere nuovamente sull’istanza di emersione alla luce del nuovo certificato di idoneità alloggiativa. La norma in questione, infatti, prevedeva la nullità, ai sensi dell’articolo 1344 del codice civile, del contratto di soggiorno “stipulato sulla base di una dichiarazione di emersione contenente dati non rispondenti al vero”. La norma dunque circoscriveva le falsità rilevanti alla “dichiarazione di emersione”, ovvero ai dati concernenti la sussistenza, l’effettività e la durata del rapporto di lavoro irregolare del quale si chiede la regolarizzazione, anche avuto riguardo ai redditi del datore di lavoro. L’attestazione di idoneità alloggiativa non rientrava però tra le circostanze che dovevano essere attestate nella procedura di emersione, secondo il TAR del Lazio.
Possiamo dunque immaginare un’interpretazione conforme anche con riferimento alla procedura di emersione del 2020.
7. È possibile presentare la domanda di emersione e ottenere il permesso per lavoro senza passaporto?
Fase di presentazione della richiesta di emersione
Relativamente alla fase di presentazione della richiesta di emersione, già nel corso delle prime settimane sono state diffuse chiare indicazioni contenute sia nel DM 27 maggio 2020 citato, sia nelle circolari del Ministero dell’Interno che precisano che non è necessario produrre il passaporto, almeno in questa fase preliminare.
Per quanto riguarda la richiesta di emersione di cui al primo comma, ovverosia quelle inviate dal datore di lavoro, sebbene non ci siano riferimenti in tale senso nel Decreto del Ministero dell’interno del 27 maggio 2020, la Circolare del Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del 30 maggio 2020 prevede che per la presentazione dell’istanza e per la successiva firma del contratto di soggiorno non sia necessaria l’esibizione o il possesso del passaporto. Precisamente la circolare richiede che l’istanza sia corredata da un documento di identità o equipollente del datore di lavoro e del lavoratore in corso di validità; con riferimento al documento di identità del lavoratore, qualora nell’istanza sia stato indicato un documento scaduto o qualora il documento indicato sia scaduto nelle more della definizione della procedura, copia dello stesso dovrà comunque essere esibita; nel caso di mancanza di documento possono essere prodotti titoli equipollenti, quali ad esempio: lasciapassare comunitario, lasciapassare frontiera, titolo di viaggio per stranieri, titolo di viaggio apolidi, titolo di viaggio rifugiati politici, attestazione di identità rilasciata dalla Rappresentanza Diplomatica in Italia del Paese di origine.
L’unica precisazione è che laddove in sede di presentazione dell’istanza, l’identificazione sia avvenuta tramite esibizione di un permesso di soggiorno scaduto, all’atto della convocazione presso lo Sportello Unico per l’Immigrazione il lavoratore dovrà essere in possesso di un documento di identità in corso di validità.
Ugualmente, per ciò che riguarda la richiesta di emersione di cui al secondo comma, il citato Decreto Ministeriale all’art. 7 prevede che possa essere inserita nel kit postale la copia del passaporto o di altro documento equipollente, oppure anche la sola attestazione di identità rilasciata dall’autorità consolare.
Fase del rilascio del titolo di soggiorno
Discorso diverso e più complesso va fatto in relazione al rilascio del titolo di soggiorno da parte delle Questure competenti al termine della procedura di emersione, laddove come noto, il passaporto è il documento dal quale l’amministrazione acquisisce le informazioni sull’identità del cittadino straniero e in base al quale rilascia il permesso di soggiorno. Pertanto, sembrerebbe che in mancanza del passaporto non sia possibile il rilascio del titolo di soggiorno.
Tuttavia è possibile avanzare delle ipotesi per sostenere la legittimità del rilascio del titolo di soggiorno anche in mancanza del passaporto.
In primo luogo, si osservi che l’esigenza di identificazione del cittadino straniero tramite l’esibizione del passaporto non sembra sussistere laddove il richiedente sia già stato identificato e possa addirittura produrre un altro documento identificativo a riprova della sua identità (ad es. la carta di identità). Sul punto si è espresso il Consiglio di stato con il provvedimento N. 09692/2018 il quale riporta che “Il possesso del passaporto – o documento equipollente – in corso di validità è, dunque, considerato dal legislatore quale elemento indispensabile sia per l’ingresso che per la legittima permanenza dello straniero sul territorio nazionale. E’ tuttavia evidente che mentre in sede di primo ingresso nel territorio lo straniero non possiede, di norma, altri documenti validi sul territorio nazionale al di fuori del passaporto, nel caso di rinnovo del permesso di soggiorno il concetto di equipollenza acquisisce maggiore rilevanza e pregnanza, essendo possibile per lo straniero regolarmente soggiornante ottenere la carta d’identità, ossia un valido documento di identificazione. Nel caso di specie, al momento della presentazione della domanda l’appellante era già titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, sulla base del quale aveva legittimamente chiesto un nuovo titolo nei termini perentori stabiliti dalla legge; era altresì in possesso della carta di identità rilasciata dal Comune di -OMISSIS- in data 17/12/2009 e valevole fino al 16/12/2019, ossia di un documento equipollente al passaporto, pacificamente sussumibile nel disposto di cui all’art. 4 comma 1 citato. Da ciò il carattere non dirimente della semplice produzione della domanda di rinnovo del passaporto (in conseguenza della scadenza dello stesso) in luogo del passaporto”
In secondo luogo, occorre valutare se non sia possibile sostenere il diritto al rilascio di un titolo di viaggio in quei casi in cui il rilascio del passaporto non è possibile.
Infatti, a prescindere da esigenze di protezione, il titolo di viaggio può essere rilasciato anche ai cittadini stranieri i quali diano prova di non poter ottenere il passaporto tramite la propria autorità consolare, anche laddove ciò sia determinato anche solo da una impossibilità pratica e logistica. La circolare 48 del 1961 riporta che“Agli stranieri che invece non abbiano la qualifica di rifugiati politici e che, per ragioni varie, non possono ottenere il passaporto delle autorità del loro paese, verrà rilasciato un nuovo documento, a forma di libretto di colore verde chiaro, denominato “Titolo di viaggio per stranieri”. Il titolo di viaggio inoltre è documento equipollente al passaporto”
Sul punto appare particolarmente utile la recente sentenza del TAR Napoli n. 1069/2021 con la quale il Giudice amministrativo ricorda che tutti i cittadini stranieri hanno diritto ad accedere a un titolo di viaggio in caso di impossibilità di ottenere il passaporto, che va intesa in senso ampio, ricomprendendovi anche i casi di impossibilità di fatto legati all’organizzazione consolare. Inoltre, ricorda il TAR che la prova di questa impossibilità può essere fornita adducendo indizi di ogni genere: solleciti al consolato, richieste di appuntamenti, biglietti del treno etc.: “Nella genericità della formula adoperata dal legislatore che riconnette il rilascio del titolo di viaggio per stranieri alla prova della “impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del suo paese”, deve ritenersi che tale presupposto ricorra non solo nelle ipotesi di impossibilità giuridica ma anche di impossibilità di fatto. Ed è proprio questa l’ipotesi che dà fondamento alle pretese del ricorrente il quale ha dimostrato di aver attivato ogni mezzo per ottenere dalla ambasciata del proprio Paese l’agognato passaporto. 6.2 Una diversa interpretazione determinerebbe la lesione di diritti fondamentali dello straniero, quali quello di ottenere il documento di riconoscimento formale della sua appartenenza ad un certo Paese, con il connesso diritto di entrare ed uscire da altri Stati, nonché, come accade nel caso di specie, di poter essere legittimato alla acquisizione del titolo di soggiorno necessario per il completamento delle procedure di integrazione nello Stato ospitante. (…) In particolare, la impossibilità di avere contatti con il proprio paese non può essere intesa, come prospetta l’amministrazione, nel solo senso di ricomprendervi quei casi in cui il contatto o il rientro dello straniero nel proprio paese d’origine lo esporrebbe a gravi rischi per la propria incolumità ma deve essere ritenuto elemento rilevante in fatto in tutte quelle circostanze in cui gli apparati burocratici del paese di appartenenza rendono impossibile al cittadino di conseguire il documento richiesto. Se così non fosse, si perverrebbe alla conseguenza che in ogni caso in cui lo straniero non riuscisse ad ottenere il passaporto dalle rappresentanze diplomatiche non potrebbe mai recarsi nel proprio Paese d’origine. Nel caso in esame, in particolare, la allegazione di un passaporto in corso di validità è stata richiesta allo straniero ai fini del buon esito del procedimento volto al rilascio del titolo di soggiorno per il completamento del proprio percorso formativo nel paese ospitante. Appare, dunque, evidente come il diniego impugnato determini effetti che si propagano in maniera irreversibile e pregiudizievole nella sfera giuridica del ricorrente che si vedrebbe privato in maniera definitiva della possibilità di risiedere in maniera regolare sul territorio dello Stato.
8. I cittadini stranieri quali diritti hanno nelle more del procedimento di emersione?
Le persone che hanno presentato domanda di regolarizzazione sono – nelle more della procedura – regolarmente soggiornanti sul territorio e hanno diritto a godere della parità di trattamento nell’accesso ai beni e servizi rispetto agli stranieri titolare di permesso per motivi di lavoro, nonché nell’accesso al servizio sanitario nazionale.
9. Il lavoratore può aprire un conto corrente?
Quanto al diritto all’apertura di un conto corrente giova ricordare che l’art 126-noviesdecies (Diritto al conto di base) del Testo Unico Bancario stabilisce un principio di non discriminazione nell’accesso a un conto corrente di base prevedendo quanto segue: “tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza, hanno diritto all’apertura di un conto di base […] e che per consumatore soggiornante legalmente nell’Unione europea si intende chiunque abbia il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea in virtù del diritto dell’Unione o del diritto italiano, compresi i consumatori senza fissa dimora e i richiedenti asilo.” Giova anche richiamare la circolare dell’A.B.I. del 19 aprile 2019, che, nonostante sia stata emanata con riferimento ai richiedenti protezione internazionale, contiene un principio assimilabile al caso dei richiedenti regolarizzazione ancora privi di un permesso di soggiorno: la sola ricevuta con foto del permesso di soggiorno dà accesso all’apertura di un conto corrente: “Il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo (di cui all’art.4, comma 1 del D.lvo 142 del 2015), se in corso di validità, costituisce documento idoneo per procedere all’apertura del rapporto […] Le medesime considerazioni possono valere anche per la ricevuta di cui al predetto art. 4, comma 3 (che costituisce permesso di soggiorno provvisorio), nella misura in cui la stessa ricevuta, in corso di validità, sia munita di fotografia del titolare, rilasciata da un’amministrazione dello Stato e indichi il nome e la data di nascita del richiedente”.
10. Il lavoratore ha diritto a iscriversi al servizio sanitario?
Per quanto riguarda il diritto all’iscrizione al SSN: la Circolare del Ministero della Salute del 14/7/2020 chiarisce che i cittadini stranieri “in emersione” hanno l’obbligo d’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale ex art.34 del TU 286/98, con decorrenza dalla data di presentazione della domanda di emersione o del permesso temporaneo, che avrà carattere provvisorio fino al perfezionamento delle procedure di emersione.
Nonostante alcune prefetture abbiano ulteriormente chiarito che per il rilascio della tessera sanitaria è sufficiente una dichiarazione di assunzione che contenga i dati della domanda di emersione e il Codice Fiscale provvisorio, molte strutture sanitarie rifiutano l’iscrizione in mancanza della dimostrazione dell’avvenuto versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.
11. Il lavoratore ha diritto all’iscrizione anagrafica?
Il richiedente è regolarmente soggiornante sul territorio in base a quanto disposto dal comma 17 art. 103 d.l. 34/2020 e ha dunque diritto a essere iscritto alle liste anagrafiche della popolazione residente.
Invero, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento anagrafico (DPR 223/89), per “persone residenti” nel Comune si intendono le persone “quelle aventi la propria dimora abituale nel comune.”
Pare superfluo ricordare che i lavoratori e le lavoratrici, nelle more della procedura di regolarizzazione, fissano la propria dimora abituale presso un Comune del territorio nazionale.Pertanto, combinando tali disposizioni con l’art. 6 co. 7 del Testo Unico immigrazione il quale dispone che “le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani […]”, appare pacifico che, nelle more della definizione del procedimento di emersione, gli istanti hanno diritto all’iscrizione anagrafica.
Regolarizzazione art. 103, primo comma del D.L. n. 34 del 2020
1. Quali sono i requisiti per le due ipotesi di regolarizzazione di cui al primo comma dell’art. 103 del D.L. 34 del 2020?
Il D.L. 34/2020, all’art. 103, comma 1, stabilisce che “i datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall’articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, possono presentare istanza, con le modalità di cui ai commi 4, 5, 6 e 7, per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri.”
Al comma 4 del medesimo articolo si stabilisce che “Nei casi di cui ai commi 1 e 2, se il rapporto di lavoro cessa, anche nel caso di contratto a carattere stagionale, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 22, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, al fine di svolgere ulteriore attività lavorativa.”
Il primo canale di emersione viene introdotto dal comma 1 del Decreto Legge e può essere attivato esclusivamente dal datore di lavoro.
Quest’ultimo deve necessariamente operare in uno dei comparti economici indicati nel comma 3. Il datore di lavoro può essere un cittadino italiano, un cittadino dell’Unione Europea o un cittadino non comunitario che sia, però, titolare di un permesso di soggiorno per lungo soggiornanti (art.9 dlgs 286/1998).
Il datore di lavoro dovrà presentare un’istanza con la finalità di:
- Assumere un lavoratore straniero già presente sul territorio dello Stato;
- Regolarizzare un rapporto di lavoro già in essere, quindi irregolarmente instaurato con un lavoratore comunitario, non comunitario o italiano.
In entrambi i casi il medesimo di lavoro dovrà dimostrare di possedere la capacità economica per poter assumere il lavoratore straniero come illustrato nel paragrafo successivo.
L’istanza dovrà contenere l’indicazione della durata del contratto di lavoro e il trattamento retributivo, che non potrà essere inferiore a quello previsto dal relativo contratto collettivo.
Con circolare 5 giugno 2020 il Ministero dell’Interno ha chiarito che i rapporti di lavoro oggetto di emersione possono essere a tempo indeterminato, determinato, con orario a tempo pieno o parziale secondo la disciplina contrattuale e per il lavoro domestico con una retribuzione prevista dal CCNL e comunque non inferiore al minimo previsto per l’assegno sociale.
L’istanza non potrà riguardare indistintamente qualsiasi cittadino straniero presente sul territorio nazionale, ma solo coloro che, indipendentemente dalla regolarità del soggiorno, risultino presenti sul territorio italiano prima dell’8 marzo 2020 e che non se ne siano allontanati dopo l’8 marzo 2020.
La prova della presenza dello straniero sul territorio italiano può essere fornita solo attraverso:
- I rilievi fotodattiloscopici a cui il cittadino straniero sia stato sottoposto prime dell’8 marzo 2020;
- La dichiarazione di presenza effettuata prima dell’8 marzo 2020 dal cittadino straniero che abbia fatto ingresso nel territorio nazionale per soggiorni di breve durata;
- Le attestazioni costituite da documentazioni di data certa provenienti da organismi pubblici.
Nel caso in cui, in esito allo svolgimento della procedura, l’istanza venga accolta, verrà rilasciato al cittadino straniero un permesso di soggiorno per lavoro disciplinato ai sensi del Testo Unico in materia d’immigrazione (D.lgs. n. 286/1998).
Per attivare il canale di emersione il datore di lavoro dovrà versare un contributo forfettario a titolo di copertura dei costi di procedura pari a euro 500,00 per ogni lavoratore.
I datori di lavoro che hanno avviato la procedura di emersione sono tenuti a versare la contribuzione dovuta afferente ai periodi di lavoro secondo le indicazioni di seguito riportate, per le diverse gestioni, con le seguenti decorrenze:
- dal 19 maggio 2020 (data di entrata in vigore del decreto legge n.34/2020), per le istanze con cui è stata dichiarata la sussistenza del rapporto di lavoro con cittadini italiani o di Stati dell’Unione europea;
- dalla data d’inizio del rapporto di lavoro, per le istanze presentate allo Sportello unico per l’immigrazione volte a instaurare un rapporto di lavoro con cittadini extracomunitari presenti sul territorio nazionale se il rapporto di lavoro è instaurato successivamente alla presentazione dell’istanza ma prima della definizione della procedura di emersione, secondo le indicazioni della circolare congiunta del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del Ministero dell’Interno del 24 luglio 2020, n. 2399.
2. In particolare quali sono i requisiti reddituali del datore di lavoro?
L’art. 103 dl D.L. n. 34 del 2020 non definisce i requisiti reddituali del datore di lavoro per presentare la domanda di emersione, ma ne rimanda la disciplina a un decreto interministeriale.
Tale provvedimento è stato adottato dal Ministero dell’interno di concerto con quello dell’economia, del lavoro e dell’agricoltura il 27 maggio 2020 e, all’art. 9, prevede una diversa capacità economica a secondo del tipo di datore di lavoro e del settore di attività.
Per i soggetti operanti nel settore agricolo, indipendentemente dalla natura di persona fisica, ente o società, viene richiesta la dimostrazione di un reddito imponibile o di un fatturato risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi o dal bilancio di esercizio precedente non inferiore a 30.000,00 euro annuo.
Identico ammontare, secondo le FAQ ministeriali, è previsto per i datori di lavoro del settore domestico di sostegno al bisogno familiare o all’assistenza alla persona che siano persone giuridiche.
Per gli altri datori di lavoro del settore domestico vengono invece richiesti limiti reddituali sensibilmente minori. Il decreto interministeriale infatti, sempre all’art. 9 stabilisce che il limite minimo di reddito imponibile richiesto sia:
- 20.000 euro in caso di nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito;
- 27.000 euro in caso di famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi.
Sin da subito gli interpreti hanno evidenziato che tale formulazione lasciava non chiaro l’ammontare richiesto nei casi in cui le due fattispecie sussistono contemporaneamente, ovvero qualora il un nucleo familiare sia composto da un solo percettore di reddito.
A tale dubbio sembrava aver dato risposta, a procedura ancora aperti, le FAQ ministeriali, secondo le quali “Nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga autonomamente tale soglia di reddito, questo potrà essere integrato dal reddito percepito da altro soggetto del nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi. In tal caso la soglia di reddito si eleva a 27.000 euro”; la conseguenza logica di tale affermazione, infatti, è che qualora il limite dei 20.000 euro sia raggiunto dal datore, non opera alcun aumento della soglia di reddito richiesto in caso di convivenza con altri familiari.
Tuttavia occorre segnalare che, a tre mesi dalla chiusura dei termini per presentare le domande, il dicastero dell’interno sembra aver cambiato orientamento, indicando, con la circolare 17 novembre 2020 che qualora la famiglia anagrafica del datore di lavoro sia composta da più persone conviventi, il reddito minimo richiesto sia pari a 27.000 euro, indipendentemente dal fatto che il datore sia l’unico percettore di reddito.
In una situazione di oggettiva incertezza dell’interpretazione fornita dal Ministero dell’Interno delle norme sull’emersione, si ritiene che in base al tenore letterale dell’art. 9 del decreto interministeriale 27 maggio 2020, nonché al principio del legittimo affidamento dell’istante alle indicazioni che erano state diramate al momento della presentazione della domanda, debba essere riconosciuta l’applicazione dell’interpretazione più favorevole ricavabile dalle suestese FAQ e, quindi, nei casi di nuclei monoreddito vada richiesta la soglia di capacità economica inferiore.
Invero, come affermato dal T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, nella pronuncia 16 maggio 2012, n. 4455 la tutela del legittimo affidamento del destinatario dei provvedimenti amministrativi costituisce un limite all’azione della pubblica amministrazione, la quale, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione, è tenuta a improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede, cui corrisponde l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo affidamento.
Sempre riguardo al lavoro domestico o di assistenza familiare occorre specificare che:
- il parametro reddituale richiesto può essere integrato anche dal coniuge o dai parenti entro il secondo grado seppure non conviventi con il datore;
- alcuna dimostrazione di capacità economica verrà richiesta se il datore di lavoro è affetto da patologie o disabilità che ne limitano l’autosufficienza, per l’assunzione di un solo dipendente. In base alle FAQ esenzione opera solo se la domanda è presentata dalla persona che presenta la limitata autosufficienza; tale condizione va attestata mediante certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da medico convenzionato in data antecedente all’inoltro della domanda (cfr. Circolare Ministero Interno, dipartimento libertà civili, 30 maggio 2020).
Nel concetto di reddito il decreto interministeriale fa rientrare anche percezioni non soggette a dichiarazione dei redditi, quali ad esempio misure assistenziali o previdenziali (ad esempio l’assegno d’invalidità).
La norma regolamentare prevede anche l’ipotesi in cui il cui l’assunzione riguardi più dipendenti. In tali casi non viene fissata una soglia economica minima, ma la valutazione di congruità viene affidata all’ispettorato territoriale del lavoro sulla base dei minimi salariali previsti dai CCNL e delle tabelle del costo orario medio del lavoro predisposte dal Ministero del lavoro.
Per l’imprenditore agricolo possono essere valutati anche gli indici di capacità economica di tipo analitico risultanti dalla dichiarazione IVA, prendendo in considerazione il volume d’affari al netto degli acquisti, o dalla dichiarazione IRAP e i contributi comunitari documentati dagli organismi erogatori
Qualora il reddito non risulti congruo rispetto al numero di assunzioni dichiarate, l’Amministrazione ha la facoltà di ammetterne solo un determinato numero, sulla base del quale le domande andranno scelte in ordine cronologico d’invio.
3. La domanda di regolarizzazione può essere presentata da più datori di lavoro?
Con circolare congiunta tra il Ministero dell’interno e quello del lavoro, datata 24 luglio 2020, viene riconosciuta la possibilità, nel settore domestico e dell’assistenza familiare, d’inviare più domande di emersione, sino al massimo di tre, in favore dello stesso lavoratore part time.
Anche in tal caso viene richiesto che il reddito riconosciuto al dipendente, sommando i tre rapporti, sia non inferiore all’ammontare dell’assegno sociale.
Ogni domanda seguirà un procedimento autonomo.
Risultano alquanto incomprensibili le ragioni per cui tale facoltà non venga riconosciuta anche nel settore agricolo.
Più in generale la circolare indica che il lavoratore regolarizzando in base alle procedure di cui al primo comma dell’art. 103 del D.L. n. 34 del 2020, può svolgere anche un ulteriore rapporto di lavoro, in qualsiasi settore, contemporaneamente a quello per cui è stata presentata la domanda di emersione a condizione che:
- sia già titolare di un permesso che autorizza tale impiego;
- la somma delle ore svolte nelle due occupazioni non superi i limiti d’orario settimanale, pari a 48 ore e rispetti i riposi settimanali e giornalieri normativamente previsti ( si vedano circolare Ministero del lavoro 3 marzo 2005 n 8 e risposta a interpello emessa dallo stesso dicastero il 10 ottobre 2006 PROT N 25 / 0004581).
4. Quale durata deve avere il contratto di lavoro stipulato in forza della domanda di regolarizzazione?
L’art. 103 D.L. 34/2020 non stabilisce alcuna durata temporale della proposta di contratto di lavoro che un datore di lavoro poteva effettuare entro il 15 agosto 2020 al fine di consentire, oltre all’instaurazione di un rapporto di lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro al/alla lavoratore/lavoratrice straniero/a.
La disposizione, infatti, al comma 4 prevede che «Nell’istanza di cui al comma 1 sono indicate la durata del contratto di lavoro e la retribuzione convenuta, non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.»
In attuazione di detta previsione, l’art. 5 del DM 27 maggio 2020 ha previsto che l’istanza di regolarizzazione dovesse contenere, a pena di inammissibilità, i seguenti elementi:
- «dati identificativi del datore di lavoro con gli estremi del documento di riconoscimento in corso di validità;
- dati identificativi dello straniero con gli estremi del documento di riconoscimento in corso di validità;
- c) dichiarazione circa la presenza dello straniero sul territorio nazionale prima dell’8 marzo 2020 risultante da rilievi foto dattiloscopici, dichiarazione di presenza resa, ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68, attestazioni costituite da documentazione di data certa provenienti da organismi pubblici;
- proposta di contratto di soggiorno previsto dall’art. 5-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni;
- attestazione del possesso del requisito reddituale di cui all’art. 9;
- dichiarazione che la retribuzione convenuta non è inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento;
- durata del contratto di lavoro;
- indicazione della data della ricevuta di pagamento del contributo forfettario di cui all’art. 8, comma 1;
- indicazione del codice a barre telematico della marca da bollo di euro 16,00, richiesta per la procedura.»
Evidente dalla mera lettura delle norme che il legislatore:
- non ha preteso una durata minima del rapporto di lavoro
- per quanto riguarda la retribuzione oraria ha posto un limite minimo inderogabile (quello previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria), lasciando libere le parti di convenire una paga oraria superiore a detto limite, a seconda del mercato del lavoro locale.
Poiché è consentito esclusivamente al legislatore determinare il trattamento delle persone straniere (art. 10, co. 2 Cost.), sono illegittime interpretazioni o richieste della Pubblica amministrazione che pretendano una determinata durata contrattuale o un determinato orario di lavoro settimanale o ritenga impossibile una retribuzione oraria superiore al minimo del CCNL.
Quanto alla durata del rapporto di lavoro, le stesse circolari ministeriali emanate in relazione alla regolarizzazione 2020 non indicano affatto un limite ma, al contrario, affermano che «in ordine alla tipologia di rapporti di lavoro che possono essere oggetto del procedimento di emersione, su indicazione espressa del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, gli stessi potranno essere a tempo indeterminato, determinato, con orario a tempo pieno o a tempo parziale secondo la disciplina contrattuale e, nel caso di lavoro domestico, con una retribuzione mensile prevista dal CCNL e, comunque ,non inferiore al minimo previsto per l’assegno sociale» (circolare Min. interno prot. 0001455 del 5 giugno 020, circolare Min. lavoro prot. 0003008 del 24 luglio 2020 e, nello specifico del solo lavoro domestico cfr. anche la circolare 0001395 del 30 maggio 2020).
Da evidenziare che, per quanto riguarda il settore domestico, anche il recente CCNL 2020, applicabile dall’1 ottobre 2020, contempla espressamente il contratto di lavoro a tempo determinato (art. 7), ciò che non potrebbe non essere stante la libertà contrattuale delle parti.
Quanto all’orario di lavoro settimanale o mensile della prestazione lavorativa, occorre evidenziare che nessuna disposizione di legge, né del vigente CCNL, prevede un orario minimo settimanale e/o mensile, indicando, al contrario, il limite orario massimo giornaliero (art. 14 CCNL), essendo pertanto perfettamente ammissibile un rapporto di lavoro a ore settimanali, come avviene, ad esempio, nella stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro nel settore domestico.
Da considerare che per quanto riguarda il lavoro agricolo, la stessa circolare congiunta del Ministero dell’interno e del lavoro del 24 luglio 2020, prot. 00030008, indica in “almeno 5 giornate” la prestazione lavorativa minima e pertanto sarebbe irragionevole pretendere che per il solo lavoro domestico valgano regole diverse.
Quanto alla misura della retribuzione, è questione correlata alle due precedenti, poiché se il legislatore non ha indicato alcuna durata minima del rapporto di lavoro né una durata oraria della prestazione, va da sé che non può essere determinato alcun minimo retributivo.
Tuttavia, le circolari ministeriali emanate in occasione della regolarizzazione di cui all’art. 103 D.L. 34/2020 pretendono che per il solo lavoro domestico sia garantita una retribuzione minima mensile non inferiore all’importo dell’assegno sociale (€ 459,83 mensili – € 5.977,79 annui). In questo senso si vedano le circolari del Ministero dell’interno del 30 maggio 2020 prot. 0001395 e del 5 giugno 2020 prot. 001455, nonché quella congiunta del Ministero dell’interno e del lavoro del 24 luglio 2020, prot. 00030008.
Poiché una simile pretesa non riguarda gli altri settori coinvolti nella regolarizzazione pare evidente la discriminazione operata dalle suddette circolari, con effetto penalizzante per una sola categoria di lavoratori/lavoratrici.
Ad ogni buon conto, va evidenziato che nulla vieta che tale importo minimo sia raggiunto, per i rapporti di lavoro domestico, pattuendo un compenso orario superiore al limite minimo previsto dal CCNL, in linea con le tariffe locali del mercato del lavoro.
5. Cosa accade in caso di risoluzione, cessazione o di mancata stipula dei contratti lavorativi per cui è stata presentata la domanda di emersione ? Cosa accade se le parti non compaiono avanti allo Sportello Unico per firmare il contratto di soggiorno?
Il datore di lavoro è obbligato a portare a compimento la procedura; qualora nelle more sia segnalata l’interruzione del rapporto di lavoro le Prefetture dovranno convocare prioritariamente tali posizioni per formalizzare l’interruzione del rapporto di lavoro (circolare del Ministero dell’Interno e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 24 luglio 2020).
Tuttavia in caso d’interruzione del rapporto di lavoro iniziato nelle more della procedura occorre distinguere tra l’ipotesi di cessazione per motivi di forza maggiore (v. circolare del Ministero dell’Interno e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 24 luglio.2020) e quella per motivi diversi (v. circolari del Ministero dell’Interno del 17 novembre 2020 e 11 maggio 2021).
In caso d’interruzione per forza maggiore (es. decesso del datore; fallimento dell’azienda) si presentano due ipotesi:
- Anzitutto è possibile il subentro di altro datore di lavoro, anche con modifica delle condizioni del contratto. In caso di lavoro domestico, non essendo possibile il subentro, è prevista la possibilità di stipula di nuovo contratto di lavoro con altro datore di lavoro. In ogni caso, è necessario informare l’INPS delle variazioni (interruzione; subentro; nuovo contratto) e appare opportuno informare anche Prefettura. All’appuntamento in Prefettura saranno convocati il nuovo datore e il lavoratore per la stipula del contratto di soggiorno, con conseguente rilascio di un permesso per lavoro subordinato. Secondo la Circolare del 21 aprile 2021 sarà il datore di lavoro subentrante a dover sottoscrivere il contratto di soggiorno e quindi presentarsi alla convocazione presso il SUI; resta da verificare se le Prefetture applicheranno il medesimo principio anche ai settori diversi da quello agricolo, oggetto principale della Circolare suddetta.
- Se invece il subentro “non è possibile” (resta da comprendere cosa questo concretamente significhi, dato che non sembra potersi obbligare il lavoratore a essere impiegato alle dipendenze di qualsiasi datore, pena il rigetto dell’istanza), la Prefettura prenderà atto dell’interruzione e convocherà il lavoratore per rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione.
Se il rapporto di lavoro cessa per motivi non di forza maggiore (es. dimissioni, licenziamento) o per cessazione del contratto a termine le parti sono tenute a comunicare l’interruzione alla Prefettura chiedendo la convocazione in via prioritaria al fine del rilascio di un titolo di soggiorno per attesa occupazione. Il rilascio è subordinato alla positiva verifica della non strumentalità della domanda di emersione. Indici che indurranno a ritenere il rapporto di lavoro genuino (e quindi la domanda non fraudolenta) saranno la sua durata, l’avvenuto invio della comunicazione all’INPS e la corresponsione delle buste paga.
In caso di mancata instaurazione del rapporto di lavoro (ossia mancata sottoscrizione del contratto di soggiorno all’atto della convocazione in prefettura), occorre anche qui distinguere tra motivi di forza maggiore e altri motivi. Se sussistono motivi di forza maggiore vi è l’obbligo per l’Amministrazione di rilasciare il permesso di soggiorno per attesa occupazione. Non così nei casi di cause diverse dalla forza maggiore, nei quali la Prefettura effettuerà “una valutazione caso per caso circa l’opportunità di concedere allo straniero il permesso di soggiorno per attesa occupazione”. In base alla circolare del Ministero dell’Interno dell’11 maggio 2021 tale valutazione servirà solo a escludere che “la domanda di emersione sia stata inoltrata strumentalmente e che il rapporto di lavoro si sia instaurato in modo fittizio”.
In tutti i casi di cessazione il lavoratore può svolgere una nuova occupazione con un altro datore.
Infine il comma 15 fa conseguire alla mancata comparizione delle parti avanti allo Sportello unico l’archiviazione della domanda.
E’ d’uopo sotto questo profilo evidenziare che la giurisprudenza relativa alle precedenti regolarizzazioni ha innanzitutto ritenuto che l’invito a recarsi al SUI per la firma del contratto di soggiorno va indirizzato sia al datore che al lavoratore, presso i domicili dichiarati (TAR Liguria, ordinanza 284/2012 REG.PROV.COLL.). Inoltre numerose pronunce hanno ritenuto che, qualora si presenti il solo lavoratore la pratica non vada archiviata, ma a quest’ultimo vada rilasciato un permesso per attesa occupazione (TAR Lombardia n. 7528/2010 REG.SEN. – TAR Piemonte n. 1315/2011 Reg. Prov. Coll.).
La casistica disciplinata dall’articolo 103 e dalle citate circolari può quindi essere riassunta come segue:
Interruzione o mancata instaurazione del rapporto di lavoro per cause di forza maggiore. | Obbligo per la Prefettura di rilasciare un permesso per attesa occupazione. |
Interruzione del rapporto di lavoro per altre cause. | Facoltà per la Prefettura di rilasciare un permesso per attesa occupazione in presenza di determinate condizioni. |
Mancata conclusione del contratto di lavoro per altre cause. | Facoltà per la Prefettura di rilasciare un permesso per attesa occupazione previa valutazione caso per caso. |
Mancata presentazione di entrambe le parti alla convocazione allo Sportello Unico Immigrazione. | Archiviazione del procedimento. |
Mancata presentazione del datore di lavoro alla convocazione allo Sportello Unico Immigrazione. | Rilascio di un permesso per attesa occupazione |
In tutte le ipotesi rimane in ogni caso ferma la possibilità, in presenza dei requisiti normativamente previsti, di ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno ad altro titolo incluso quello per protezione speciale ex art. 19, commi 1.1 e 1.2. del D. Lgs. n. 286 del 1998.
6. Mediante quali documenti si può provare la presenza del lavoratore in Italia prima dell’ 8 marzo 2020?
La prova della presenza può essere fornita attraverso:
- rilievi fotodattiloscopici (che però presuppongono che la persona in passato sia stata titolare di un permesso di soggiorno ovvero sottoposto a controlli);
- la dichiarazione di presenza (che però si riferisce ai soggiorni di breve durata ovverosia di non più di 3 mesi; nel caso di stranieri che provengono da Paesi che non applicano l’accordo Schengen fa fede il timbro sul documento di viaggio); quindi presuppone un precedente ingresso regolare;
- attestazioni costituite da documentazioni di data certa provenienti da organismi pubblici.
Il dipartimento di P.S. del Ministero dell’Interno ha emesso una circolare datata 30 maggio 2020 ove richiama espressamente il parere reso dall’Avvocatura dello Stato in data 4 ottobre 12 (in occasione della precedente regolarizzazione del 2012, emesso all’epoca per chiarire il significato di “organismi pubblici”1) ed elenca in maniera esemplificativa i documenti utili a dimostrare tale presenza.
In pari data il diverso dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero ha pubblicato un’ulteriore circolare ( Circolare Ministero Interno, dipartimento libertà civili, 30 maggio 2020) che estende tale elenco a:
- certificazione medica proveniente da struttura pubblica;
- certificato d’iscrizione scolastica dei figli;
- tessere nominative dei mezzi pubblici;
- certificazioni provenienti da forze di polizia,
- titolarità di schede telefoniche o contratti con operatori italiani;
- documentazione proveniente da centri di accoglienza e/ o di ricovero autorizzati anche religiosi;
- documentazioni rilasciate dalle rappresentanze diplomatiche o consolari in Italia).
E infine le FAQ sul sito del Ministero dell’Interno chiariscono la dicitura “da organismi pubblici” fornendo indicazioni su documenti e atti validi ai fini della prova presenza.
Un’importante differenza tra la regolarizzazione 2012 e quella 2020 è che con la precedente procedura di regolarizzazione doveva essere fornita non solo la prova della presenza ma anche quella della continuità del soggiorno dello straniero; in quella attualmente in essere è richiesta solo la prima.
Allo stato attuale non vi sono ancora dati sufficienti in merito agli esiti delle domande di regolarizzazione e dunque risulta difficile dare informazioni certe sulla documentazione ritenuta valida.
Si segnala un provvedimento di rigetto dalla Prefettura di Perugia che ha ritenuto che il biglietto nominativo del pullman e il timbro sul passaporto non costituissero idonea attestazione della presenza prima dell’8 marzo 2020.
Non si comprende tuttavia tale decisione che contrasta con le indicazioni fornite dallo stesso Ministero nelle FAQ, secondo le quali valgono ai fini della prova della presenza in Italia “biglietti vettori aerei e marittimi nominativi utilizzati per ingresso nello Stato, anche nel caso in cui il vettore abbia coperto tratte infra Schengen”.
La mancata indicazione dei biglietti dell’autobus non può escluderne la rilevanza di documenti di viaggio considerato che:
a) l’elenco fornito dal Ministero non è tassativo;
b) la funzione svolta da biglietti aerei e marittimi è la medesima di quella dei pullman o treni laddove siano attraversate frontiere terrestri extraeuropee.
[1] Dopo aver chiarito che il concetto di organismo pubblico includeva anche soggetti pubblici, privati o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono una funzione o un’attribuzione pubblica o un servizio pubblico, l’Avvocatura rendeva un elenco esemplificativo di atti o documenti idonei a comprovare la presenza del cittadino straniero.
La procedura di emersione di cui all’art. 103, comma 2, del D.L. n. 34 del 2020
1. È corretto che la Questura richieda di rinunciare alla domanda di protezione internazionale per presentare la domanda di rilascio di un permesso provvisorio per ricerca lavoro ai sensi del secondo comma dell’art. 103 del D.L. 34 del 2020?
La novità che, in generale, differenzia la regolarizzazione in esame rispetto alle precedenti è di non essere stata riservata esclusivamente agli stranieri privi di permesso di soggiorno, riguardando anche altre fattispecie, nelle quali la persona straniera aveva comunque un permesso di soggiorno ma non convertibile in lavoro. In nessuna parte dell’art. 103 si parla, infatti, d’irregolarità di soggiorno, ciò che è confermato nelle stesse FAQ pubblicate dal Ministero dell’interno2. Poiché il legislatore dell’art. 103, co. 2 D.L. 34/2020 non ha caratterizzato ulteriormente il requisito soggettivo in esame, non può che ritenersi comprensivo sia di chi versa in stato d’irregolarità ma anche di chi è perfettamente regolare.
La questione si è posta, tuttavia, con particolare riguardo ai richiedenti asilo, nonostante lo stesso Ministero abbia precisato che “Per richiedere il permesso di soggiorno per lavoro a seguito della procedura di regolarizzazione, il cittadino straniero non è tenuto a rinunciare alla richiesta di protezione internazionale. Nel caso in cui, dopo l’ottenimento del permesso di soggiorno, il lavoratore si veda riconosciuta anche la protezione internazionale dovrà optare per uno dei due titoli.” (FAQ n. 15).
Ministero che, tuttavia, ha operato un’illegittima differenziazione, in quanto con la Circolare prot. 44360 del 19.6.2020 ha ritenuto d’interpretare l’art. 103, co. 2 escludendo i richiedenti asilo a meno che non rinuncino alla domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Ciò sull’errato presupposto secondo cui “il requisito essenziale stabilito dalla norma per la definizione della procedura di regolarizzazione di cui al c. 2 è lo stato di irregolarità sul territorio nazionale dello straniero” e poiché il richiedente asilo non può mai versare in detta condizione, essendo autorizzato a soggiornare in Italia ai sensi dell’art. 7 d.lgs. 25/2008, va escluso dalla regolarizzazione se non rinuncia alla protezione internazionale. Con successiva circolare prot. 48133 del 7.7.2020 il medesimo Ministero ha inviato a tutte le questure un’informativa da far sottoscrivere al richiedente asilo, in cui lo si avverte che, in caso di non rinuncia, non potrà avere il permesso di soggiorno per regolarizzazione.
Interpretazione totalmente illegittima, poiché pretende detta rinuncia solo per coloro che accedono al comma 2, mentre ammette la coesistenza delle due procedure (di protezione internazionale e di regolarizzazione) per coloro che accedono al comma 13. Irragionevolezza della distinzione che crea una palese discriminazione.
Inoltre, l’interpretazione ministeriale confonde i due istituti – l’asilo politico e la regolarizzazione – nonostante siano giuridicamente differenti e non sovrapponibili.
L’asilo politico/protezione internazionale è un diritto in sé, che preesiste al suo riconoscimento e riguarda una condizione soggettiva che origina già al momento della partenza dal Paese e, in presenza di determinati elementi (persecuzione o danno grave), pone la persona sotto la protezione dello Stato italiano con abbandono di quella del Paese di origine (Cass. SU 907/99; SU 19393/2009; SU 5059/2017; SU 29460/2019; Cass. 4455/2018, ecc.). Il permesso di soggiorno rilasciato all’esito della procedura (amministrativa o giudiziale) certifica quello status ma non determina il diritto, proprio perché esso preesiste.
Per contro, la regolarizzazione riguarda una condizione giuridica di un cittadino straniero che, avendo determinati requisiti soggettivi e oggettivi, aspira ad avere un permesso di soggiorno per lavoro, che potrà essere conservato in futuro nel rispetto delle regole ordinarie previste dal TU immigrazione d.lgs. 286/98. Aspirazione che non sottende un diritto preesistente, ma una mera (legittima) aspettativa al rilascio del permesso se integrati i requisiti di legge ed è solo nel momento in cui questi sono positivamente accertati che si costituisce il diritto al soggiorno per motivi di lavoro, prima inesistente. In altri termini, nel sistema giuridico attuale è il permesso di soggiorno che determina il diritto, non l’inverso, come invece accade per la protezione internazionale, il cui diritto preesiste.
Infine, l’interpretazione ministeriale è errata perché pretende la rinuncia all’asilo prima che la persona interessata abbia la certezza di ottenere il permesso per lavoro da regolarizzazione, cioè prima che siano verificati tutti gli elementi per averlo (idoneità del lavoro svolto, permesso scaduto dopo il 31 ottobre 2019, reperimento di un lavoro nei 3 settori prima del decorso dei 6 mesi). In buona sostanza, una rinuncia al buio!
È utile richiamare la giurisprudenza che si sta formando sul punto, che esclude, sia pur in sede cautelare, la legittimità di provvedimenti d’inammissibilità in relazione a domande di regolarizzazione presentate da richiedenti asilo ai sensi del comma 2 dell’art. 103 D.L. 34/2020 (TAR Marche ord. n. 274/2020 e n. 276/2020).
Anche la giurisprudenza di merito ha censurato, di fatto, l’interpretazione ministeriale. Il Tribunale di Firenze, infatti, con ordinanza 18 novembre 2020 ha affrontato il rapporto tra la domanda di regolarizzazione ai sensi dell’art. 103, co. 2 D.L. n. 34/2020 e la rinuncia alla domanda d’asilo, in un caso in cui la richiedente asilo aveva dovuto sottoscrivere la rinuncia, come preteso dal Ministero dell’interno, ai fini dell’ammissibilità della istanza di regolarizzazione. Dopo avere chiesto determinate garanzie processuali (procura speciale del difensore) il Giudice fiorentino ha disposto la comparizione della richiedente, che ha confermato la volontà di rinunciare alla domanda di protezione internazionale ma a condizione di ottenere il permesso ex art. 103, co. 2 D.L. 34/2020. Trattandosi di una rinuncia condizionata, il Tribunale ha sospeso il giudizio fino all’avverarsi della condizione, cioè fino al rilascio del permesso di lavoro perché, diversamente “la parte sarebbe costretta ad abbandonare la via della tutela giudiziaria del suo bisogno di protezione per l’aspettativa di una regolarizzazione che in pochi mesi potrebbe ravvisarsi infondata, se la domanda fosse respinta”4.
E’ utile ricordare che già l’art. 1 D.L. 416/89 (conv. con mod in legge 39/90), al comma 11 stabiliva che ” I richiedenti asilo che hanno fatto ricorso alle disposizioni previste per la sanatoria dei lavoratori immigrati non perdono il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Nei loro confronti non si fa luogo a interventi di prima assistenza”.
Si segnala anche l’interessante ordinanza cautelare del Consiglio di Stato sez. III, n. 1905/2021 (RG. 2064/2021) che, in sede di impugnazione di un provvedimento di rigetto della regolarizzazione ex art. 103, co. 2 D.L. 34/2020 per mancanza di rinuncia alla domanda di protezione internazionale, pur ritenendo che «la questione relativa al rapporto tra i diversi titoli ha formato oggetto di contenzioso e richiede un giusto approfondimento nella appropriata sede del merito», ha concesso la cd. sospensiva ai fini del riesame da parte dell’amministrazione dello Stato, in quanto «non risulta che il richiedente sia stato interpellato in ordine all’opzione del titolo da conseguire e che, dunque, sussistano dubbi in ordine alla regolarità procedimentale come sopra individuata».
Più esplicita è la sentenza n. 739/2021 (RG. 519/2021) del TAR Piemonte che ha annullato un provvedimento di inammissibilità della domanda di regolarizzazione ex art. 103, co. 2 D.L. 34/2020 motivata sul difetto di rinuncia alla domanda di protezione internazionale. Secondo il TAR piemontese c’è un difetto di coordinamento legislativo tra la procedura relativa alla regolarizzazione e quella della protezione internazionale, anche se notoriamente molti richiedenti asilo lavorano nel settore agricolo, cioè uno di quelli inrteressati dal D.L. 34/2020.
Nel contempo, il Giudice amministrativo torinese ritiene che la condizione giuridica del richiedente asilo sia di “precarietà di lunga durata” e la legittimità della presenza sul territorio nazionale destinata a cessare in caso di esito negativo della domanda di protezione, e pertanto la pretesa dell’Amministrazione dello Stato di escludere questa sola categoria dai benefici della regolarizzazione comporterebbe “il paradosso che un soggetto potenzialmente in possesso dei requisiti sostanziali sia per il riconoscimento dello status di rifugiato che di quelli per l’emersione, potrebbe, per mero difetto di coordinamento dei tempi delle procedure, non ottenere nessuno dei due o, seguendo le indicazioni dell’amministrazione, essere costretto a rinunciare al riconoscimento dello status di rifugiato senza aver avuto contezza del possibile esito definitivo dell’istanza.” Effetto che il TAR giudica negativamente perché arbitrario in relazione alla tassatività delle fattispecie della sanatoria.
Inoltre, il TAR Piemonte afferma che l’art. 103, co. 2 D.L. 34/2020 non è indirizzato solo agli irregolari ma anche a tutti coloro che siano in attesa del rinnovo del permesso e anche a tutti coloro che hanno beneficiato della proroga ex lege durante il periodo di emergenza sanitaria da COVID-19.
Il TAR Piemonte si è nuovamente pronunciato sul punto con la ordinanza n. 582/2021 accogliendo la domanda cautelare di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato e ritenendo che la circolare del 24 luglio 2020 (che aveva riconosciuto l’ammissibilità della convivenza tra la procedura di riconoscimento della protezione internazionale e quella di regolarizzazione comma 1) abbia il medesimo “orizzonte teleologico” rispetto alle fattispecie di cui al comma 2. Tale pronuncia, similmente a quella precedente, esclude implicitamente la rilevanza del requisito del permesso di soggiorno scaduto “dal 31 ottobre 2019”.
2. Quale termine di validità doveva avere il permesso scaduto dal 31 ottobre 2019, richiesto dal secondo comma dell’art. 103 del D.L. n. 34 del 2020?
L’art. 103, co. 2, d.l. n. 34/2020 ha previsto l’ipotesi del rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo al cittadino straniero “con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno”, allorché presente in Italia anteriormente all’8 marzo 2020, senza essersene successivamente allontanato, e avendo svolto attività lavorativa, ovviamente prima del 31.10.2019, in individuati settori lavorativi.
La finalità della norma è di offrire una possibilità di regolarizzazione ai cittadini stranieri che siano già stati regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale, e in particolare ai cosiddetti overstayers, cioè a coloro che si sono trattenuti in Italia dopo la scadenza del permesso di soggiorno, ma limitatamente a quelli “con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno”.
Il riferimento temporale contenuto nella disposizione normativa limita fortemente l’ambito di applicazione della norma, inoltre, la non impeccabile tecnica legislativa lascia ampio margine ad interpretazioni difformi e ingiustamente restrittive.
Tra le diverse fattispecie concrete riconducibili nell’ambito di applicazione della norma sicuramente devono essere ricomprese le ipotesi di cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno scaduto dopo il 31 ottobre 2019, che non sia stato né rinnovato né convertito alla data di presentazione dell’istanza di emersione.
Ivi sono ricomprese, sia le ipotesi in cui il cittadino straniero non abbia per qualsiasi motivo presentato la richiesta di rinnovo o di conversione del titolo di soggiorno posseduto, sia quelle in cui la richiesta di rinnovo o conversione sia stata presentata, ma rigettata o dichiarata inammissibile dall’Amministrazione. In questi ultimi casi, non osta al buon esito dell’istanza di emersione il fatto che il cittadino straniero abbia presentato ricorso giurisdizionale avverso la decisione negativa dell’Amministrazione, posto che l’eventuale impugnazione del rigetto avanti l’autorità giudiziaria di per sé non sospende automaticamente l’efficacia esecutiva del rigetto, tranne nelle ipotesi in cui sia stata richiesta e concessa la tutela cautelare, la cd. “sospensiva”.
L’art. 103, co. 2, d.l. 34/2020, tuttavia, non fa riferimento esclusivamente a persone in condizione di soggiorno irregolare al momento della presentazione dell’istanza di emersione, bensì anche ai cittadini stranieri il cui titolo di soggiorno è scaduto, e non (ancora) rinnovato o convertito alla predetta data, ovvero a coloro conprocedimento di rinnovo o conversione ancora pendente alla data di presentazione dell’istanza di emersione. In tal senso propende l’interpretazione letterale della norma, e il fatto che diversamente ragionando l’accesso alla procedura di emersione sarebbe rimesso alla tempestività o meno dell’Amministrazione nella definizione dei procedimenti amministrativi, con evidente disparità di trattamento di cittadini stranieri in situazioni sostanzialmente identiche. E’ vero, infatti, che nelle more del rinnovo la persona straniera conserva i diritti sottostanti il titolo di soggiorno formalmente scaduto (tra i quali il diritto al lavoro, l’iscrizione al SSN, ecc.), tuttavia deve considerarsi che l’Amministrazione, prima di rigettare la domanda di rinnovo e/o di conversione del titolo di soggiorno, deve comunicare all’interessato l’eventuale esistenza dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda ai sensi dell’art. 10 bis, L. 241/90 che comporta la sospensione del procedimento per dieci giorni al fine di consentire all’interessato di presentare eventuali osservazioni, e, solo successivamente, potrà eventualmente adottare il provvedimento di rigetto. Questa procedura, posta a garanzia della trasparenza dell’attività delle P.A. e della partecipazione del privato nel procedimento amministrativo, può comportare un ulteriore ritardo nella definizione delle domande di rinnovo del permesso di soggiorno, spesso variabile sull’intero territorio italiano, di cui non può subire conseguenze pregiudizievoli il cittadino straniero che, solo per il ritardo dell’Amministrazione, magari anche nella sola notifica dell’atto, sarebbe estromesso dalla possibilità di accedere alla procedura di emersione.
Infine, nell’individuazione del riferimento temporale “con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019” il legislatore ha chiaramente voluto ancorare, quantomeno alla data del 31 ottobre 2019, la condizione sostanziale di regolarità di soggiorno del cittadino straniero. Del tutto irrilevante è che essa consegua dal possesso di un titolo di soggiorno valido almeno sino al 31.10.2019 ovvero dalla pendenza, a quella data, di una procedura di rinnovo e/o conversione di un titolo di soggiorno precedentemente scaduto. Diversamente, infatti, situazioni giuridicamente del tutto equivalenti si troverebbero a sottostare ad un trattamento ingiustamente differenziato.
A tale riguardo, il TAR Toscana, con sentenza n. 621/2021 ha infatti affermato che “E’ dunque vero che il pregresso titolo di soggiorno in titolarità del ricorrente era scaduto anticipatamente al 31 ottobre 2019 […], ma è altrettanto pacifico che lo stesso avesse avanzato domanda di rinnovo, la quale era pendente alla data del 31 ottobre 2019, essendo stata respinta il successivo 17 aprile 2020. Da ciò consegue che alla data del 31 ottobre 2019 il ricorrente doveva considerarsi legittimamente presente sul territorio nazionale, nell’attesa della conclusione del procedimento amministrativo di rinnovo del titolo scaduto, e che ha visto venir meno tale legittimazione in epoca successiva, attraverso il rigetto dell’istanza di rinnovo medesima. Risultano quindi integrate le condizioni di cui all’art. 103, comma 2, cit, il quale si applica agli stranieri che fino al 31 ottobre 2019 fossero legittimamente presenti sul territorio nazionale e che abbiano visto venir meno tale titolo in epoca successiva”.
Infine, è opportuno precisare che è del tutto irrilevante la tipologia del titolo di soggiorno originariamente posseduto dal cittadino straniero (per motivi di studio, di famiglia, per attesa occupazione, etc etc), così come sono irrilevanti i motivi del mancato rinnovo o della mancata conversione del titolo, o del ritardo nella definizione del procedimento amministrativo di rinnovo o conversione.
3. Qual è la procedura per il rilascio e la conversione del permesso temporaneo ex art. 103, comma 2, del D.L. n. 34 del 2020? Qual è la sua durata? Opera anche in questo caso la proroga di validità dei permessi di soggiorno prevista per l’emergenza da COVID 19?
Il rilascio del permesso provvisorio
Ai fini del rilascio del permesso di soggiorno provvisorio ex comma 2 dell’art. 103 è necessario che sussistano i seguenti requisiti:
1) permesso di soggiorno scaduto a partire dal 31 ottobre 2019
2) presenza sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020 senza che il richiedente abbia lasciato il territorio nazionale dopo tale data;
3) aver svolto attività lavorativa in uno dei settori del comma 3 antecedentemente alla data del 31 ottobre 2019 comprovata secondo le modalità di cui al comma 16.
La norma non stabilisce né una durata minima del rapporto di lavoro pregresso, né che lo stesso dovesse essere regolare. Tuttavia è possibile che alcune questure neghino il rilascio del suddetto permesso a chi ha intercorso occupazioni brevi, oppure non formalizzate per esclusiva responsabilità datoriale, seppur documentalmente provate (tali questioni saranno trattate nei paragrafi successivi).
La conversione del permesso provvisorio
Entro la scadenza del termine di validità del permesso provvisorio è necessario chiederne la conversione, ma bisogna dimostrare di aver lavorato in tale periodo in uno dei settori di cui al comma 3 dell’art. 103.
La circolare del Ministero del lavoro del 23 novembre 2020 specifica che ai fini della conversione, è necessario allegare oltre al contratto di lavoro subordinato, ovvero la documentazione retributiva e previdenziale comprovante l’attività lavorativa, anche l’attestazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, competente in relazione al luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, che la stessa rientra in uno dei tre settori oggetto dell’emersione. Tale attestazione va richiesta direttamente dal lavoratore (o da un terzo che può essere delegato, ad esempio un avvocato) inviando una semplice mail ordinaria all’ispettorato. L’elenco degli ispettorati è indicato dalla circolare.
Se il lavoratore trova un’occupazione subito prima della scadenza del permesso, difficilmente riuscirà a ottenere l’attestazione richiesta, ma potrà eventualmente integrare la pratica in seguito. Si consiglia in tali casi di accludere alla domanda di conversione la mail inviata all’I.T.L.
Il rapporto di lavoro non necessariamente deve essere ancora in corso al momento della richiesta di conversione del permesso provvisorio.
Occorre però presentare comunque l’istanza di conversione entro i 6 mesi dalla ricevuta delle poste e non dal timbro della Questura, altrimenti si rischia che la domanda decada perché non presentata tempestivamente.
Proroga prevista per emergenza covid-19.
In ogni caso, dovrebbe applicarsi la norma di cui al d.l. n. 56/2021 che prevede all’art. 2 la proroga automatica di tutti i permessi di soggiorno al 31 luglio 2021; il combinato disposto tra tale previsione e l’art. 103, secondo comma, del d.l. n. 34/2020 conduce a ritenere che analoga estensione potrebbe essere riconosciuta al periodo concesso per la ricerca dell’impiego valido per la conversione.
4. Il rapporto di lavoro antecedente al 31 ottobre 2019, la cui dimostrazione è richiesta per il rilascio del permesso temporaneo, deve avere un durata particolare?
L’art. 103, comma 2, d.l. 34/20 stabilisce che i cittadini extracomunitari che intendano fare richiesta di un permesso temporaneo per ricerca lavoro, oltre ad avere il “permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno”, “devono aver svolto attività di lavoro, nei settori di cui al comma 3, antecedentemente al 31 ottobre 2019, comprovata secondo le modalità di cui al comma 16”.
A differenza delle precedenti normative di regolarizzazione, già dalla prima lettura dell’art. 103, comma 2, d.l. 34/20 si evince che non è stato stabilito un “quantum” temporale rispetto alla durata dell’attività lavorativa pregressa.
Anche il già citato comma 16 della norma di regolarizzazione, così come l’art. 3 comma 2, lett. c) e d) e 7 comma 1, lett. d) del decreto interministeriale del 27 maggio 2020 tacciono sul dato temporale, richiedendo unicamente che l’attività lavorativa sia riscontrabile da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro.
Nemmeno i documenti esemplificativi proposti dall’art. 7, comma 2 del decreto ministeriale indicano un minimo di durata dell’attività lavorativa ed anzi suggeriscono un’apertura piuttosto ampia alle ipotesi, comprendendo anche come prova una semplice corrispondenza tra datore di lavoro e lavoratore o ancor più un modello Unilav di assunzione che potrebbe anche solo dar conto della potenziale attività lavorativa da svolgersi e non quella effettivamente svolta.
Ultimo, ma non per importanza, il fatto che non vi è norma imperativa giuslavoristica che impedisca che un’attività lavorativa abbia, anche nei tre settori, una durata anche solo di un giorno.
Non essendoci nessun chiarimento in alcuna delle circolari sino ad oggi pubblicate e nemmeno nei lavori parlamentari che precedono il decreto ed accompagnano la legge di conversione, occorre trovare conferma sull’assenza di un termine minimo della durata dell’attività lavorativa nelle finalità della norma ovvero quella di garantire “livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da -COVID-19 e favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari”; sia nell’uno che nell’altro caso, nell’ipotesi di cui all’art. 103, comma 2, non v’è un intento di emersione o sanzionatorio, come invece in un’ipotesi del comma 1, né nei confronti del datore di lavoro né verso il lavoratore e dunque non c’è ragione di ricercare dei rigidi requisiti di durata dell’impiego pregresso; vi è piuttosto l’obiettivo di re-introdurre in uno specifico mercato del lavoro il lavoratore che dimostri di averne avuto già esperienza (da qui la connessione logica con la convertibilità di permesso per ricerca lavoro in caso di occupazione in uno dei tre settori) con l’ulteriore obiettivo di tutelarlo, attraverso la regolarità di soggiorno, da un rischio di contagio, così salvaguardando anche il diritto alla salute della collettività.
In tal senso si è espressa la giurisprudenza formatasi sino ad oggi, che ha escluso che il D.L. 103/2020 richieda una durata minima del lavoro svolto precedentemente al 31 ottobre 2019; in particolare ci si riferisce ai seguenti arresti: Consiglio di Stato ord. n. 61571/2021 – Consiglio di Stato ord. n. 781/2021 – TAR Emilia Romagna sentenza n. 646/2021
5. Qual è la rilevanza dell’occupazione irregolare antecedente al 31 ottobre 2019 e qual è la sua prova?
Uno dei requisiti per potere accedere alla regolarizzazione ai sensi dell’art. 103, co. 2, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in legge 17 luglio 2020, n. 77 è aver svolto attività di lavoro, in uno dei 3 settori previsti, antecedentemente al 31 ottobre 2019. La normativa stabilisce che tale attività lavorativa deve essere “comprovata secondo le modalità di cui al comma 16”, il quale fa riferimento “alla documentazione in possesso, individuata dal decreto di cui al comma 6 [ovvero il D.I. 27.5.2020, NdA], idonea a comprovare l’attività lavorativa svolta nei settori di cui al comma 3 e riscontrabile da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro”. A sua volta il D.I. 27.5.2020, all’art. 7, co. 2, individua la documentazione certamente idonea a comprovare il rapporto di lavoro in quel periodo di tempo. Ma tale indicazione non può ritenersi tassativa e, dunque, esaustiva di tutte le prove che il lavoratore potrebbe in realtà addurre per fare verificare l’effettivo svolgimento del proprio rapporto di lavoro. La maggior parte della documentazione indicata nel decreto riguarda, infatti, la prova di un rapporto di lavoro regolare (ad es. la certificazione rilasciata dal competente Centro per l’Impiego ovvero tutta la documentazione che normalmente è ricollegata al contratto di lavoro, come il modello Unilav, cedolini paga, estratto conto previdenziale, etc.). Occorre chiedersi se ed in quale misura possa avere rilevanza lo svolgimento, sempre prima del 31 ottobre 2019 di attività di lavoro irregolare, ovvero non dichiarata agli enti competenti.
Anche dalla lettura delle disposizioni prima indicate sembra potersi ritenere che il legislatore ha voluto dare rilievo anche al rapporto di lavoro irregolare. Innanzitutto, in alcuna parte dell’art. 103 o del D.I. 27 maggio 2020 si dice che il lavoratore debba provare il “contratto” di lavoro, mentre si fa sempre riferimento alla “attività” lavorativa, così potendosi ritenere che il legislatore ha privilegiato e ritenuto rilevante la realtà del rapporto di lavoro, prima ancora che la forma del contratto. Inoltre, proprio dalla lettura delle esemplificazioni contenute nel D.I. 27 maggio 2020 emerge la rilevanza anche di rapporti di lavoro irregolari e non documentati formalmente quali rapporti che possono determinare il positivo esito dell’istanza di regolarizzazione.
Se l’intento del legislatore è stato quello di agevolare l’emersione di attività lavorative svolte prima del 31 ottobre 2019 e la conseguente regolarizzazione anche nel caso di lavoro irregolare, occorre tuttavia che tale rapporto di lavoro possa essere, in qualche modo, riscontrabile. Non a caso il D.I. 27 maggio 2020 indica tra la documentazione utile le “comunicazione di posta elettronica e/o di short message service (SMS) e MyINPS, relative allo svolgimento della prestazione di lavoro occasionale in ambito domestico” o anche “qualsiasi corrispondenza cartacea [ma, deve ritenersi, anche telematica, NdA] intercorsa tra le parti durante il rapporto di lavoro, proveniente sia dal datore di lavoro sia dal lavoratore, da cui possono ricavarsi gli elementi identificativi delle parti necessari al riscontro dell’attività lavorativa (es. comunicazioni di variazioni dell’orario di lavoro, richieste di ferie o permessi o assenze a qualsiasi titolo trasmesse al datore di lavoro, contestazioni disciplinari, applicazione di istituti contrattuali, ecc.)”.
E’ tuttavia presumibile, che a fronte di una documentazione da cui non si evince con immediatezza l’avvenuto svolgimento dell’attività lavorativa in data e settori produttivi utili alla regolarizzazione e, comunque, in ipotesi di lavoro irregolare, la risposta delle competenti questure all’istanza di regolarizzazione possa essere negativa. Si può immaginare un’interpretazione restrittiva da parte delle questure della normativa in materia, tale da giungere a ritenere che solo il rapporto di lavoro regolare svolto precedentemente il 31 ottobre 2019 dia accesso alla regolarizzazione e al rilascio del permesso di soggiorno temporaneo.
In questi casi è opportuno fare una attenta valutazione della documentazione presentata e, in ipotesi di svolgimento di pregresso rapporto di lavoro irregolare, occorrerà o provvedere alla sua regolarizzazione (ciò che può avvenire, ad esempio, a seguito della sottoscrizione di un verbale di conciliazione ed al conseguente versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali) o, in caso di indisponibilità del datore di lavoro, ricorrente all’Autorità giudiziaria (ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c. al Tribunale in funzione di giudice del lavoro) al fine di chiedere l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nel periodo di nostro interesse. Nell’ambito del giudizio ogni mezzo di prova (dunque anche la testimonianza) potrà essere utilizzato al fine dell’accertamento della verità storica, ovvero della sussistenza, nel periodo precedente il 31 ottobre 2019, di un rapporto di lavoro subordinato con un datore di lavoro nell’ambito di uno dei settori produttivi previsti dall’art. 103, d.l. 34/2020. Ipotesi percorribile, in alcune ipotesi, anche attraverso un ricorso avanzato in via di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.
6. La domanda di rilascio di permesso temporaneo poteva essere inviata anche con modalità diversa dal kit postale (ad es. PEC o raccomandata a/r)?
L’art. 103, d.l. del 19 maggio 2020 non fa riferimento alle modalità concrete dell’inoltro delle istanze alla Questura di rilascio del permesso temporaneo, ma opera esclusivamente un rinvio al comma 16 dell’art. 103 cit., il quale stabilisce solo il termine di presentazione dell’istanza, il soggetto competente a riceverla e istruirla e la documentazione utile al positivo esito della stessa.
Tuttavia il successivo Decreto Interministeriale 27 maggio 2020 (“Modalità di presentazione dell’istanza di emersione dei rapporti di lavoro”) ha disciplinato in maniera più stringente le specifiche modalità di presentazione dell’istanza stabilendo che la stessa debba essere inoltrata al questore a mezzo Kit predisposto e reso disponibile dagli uffici di Poste italiane (cfr. D.M. del 27.5.2020, art. 3, co. 3 e art. 12, co. 1).
Si è tuttavia verificata, in non poche occasioni ed in diversi contesti territoriali, una concreta difficoltà/impossibilità a presentare tali domande a mezzo dei suddetti kit e, ciò per differenti ragioni (carenza degli stessi allo sportello dell’Ufficio postale, non accettazione da parte dell’Ufficio postale in considerazione di un ritenuto potere di effettuare una preventiva istruzione della pratica, mancanza di collaborazione da parte di alcuni dipendenti, mancanza di mediatori culturali e linguistici, etc.).
In tali casi è avvenuto che, autonomamente o con il supporto di terzi, le istanze siano state comunque presentate, ma con una modalità diversa da quella individuata, ad esempio a mezzo raccomandata a.r. ovvero a mezzo P.E.C. (dunque con strumenti tali da certificare senza ombra di dubbio la data di invio dell’istanza). A seguito delle stesse, applicando il citato decreto interministeriale del 27 maggio 2020, alcune questure hanno ritenuto tali istanze “inammissibili” o “irricevibili”, senza valutarle nel merito, solo in virtù della differente modalità di loro presentazione.
Tale lettura non può essere condivisa per diverse ragioni ed è stata, per il momento, smentita dalle decisioni che andremo ad indicare.
A tale fine occorre considerare:
- innanzitutto, la ratio della normativa si rinviene nella volontà di permettere la presentazione dell’istanza di permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi a mezzo di una procedura straordinaria e speciale rispetto alle norme del Testo Unico Immigrazione e quindi la voluntas legis è quella di un evidente favor nei confronti della persona che chiede di accedere alla procedura anche in virtù della pandemia in atto;
- la disciplina legale della procedura di emersione (art. 103, co. 2), in realtà, non prevede alcuna formalità collegata alla modalità di presentazione dell’istanza e, soprattutto, non commina alcuna “sanzione” di inammissibilità o irricevibilità della stessa solo perchè inviata con mezzo altro dal kit postale;
- la modalità di inoltro tramite il kit postale è individuata solo dal decreto interministeriale del 27 maggio 2020;
- la sanzione della inammissibilità dell’istanza è comminata dal Legislatore direttamente nei casi dallo stesso individuati al comma 8 dell’art. 103 (tra cui non rientra la modalità di invio dell’istanza);
- anche il già citato D.M. 27 maggio 2020, all’art. 7, commina la sanzione della inammissibilità della domanda a seguito del verificarsi di ipotesi assolutamente altre rispetto a quelle della modalità di invio;
- la declaratoria di inammissibilità derivante da un dato meramente formalistico contrasta palesemente con l’intento perseguito dal legislatore e con gli interessi di altissimo valore che questi ha ritenuto di perseguire.
Sulla questione delle modalità di presentazione delle istanze è intervenuto, condividendo le osservazioni di cui sopra, il TAR della Puglia, sede di Bari con diverse ordinanze collegiali (le nn. 718, 719, 721, 754, 755 e 756 del 2020) che hanno dichiarato illegittima la pretesa della Questura di dichiarare inammissibile l’istanza ai sensi dell’art. 103, co. 2, d.l. 34/2020 avanzata a mezzo PEC e non attraverso il Kit postale. La lettura ha trovato conferma con la sentenza del TAR della Puglia, sedi di Bari, n. 836/2021. In questo caso si trattava di prima istanza e non di istanza di conversione, ma potrebbe tornare utile anche nei casi di conversione perché Il TAR ha ordinato alla Questura l’esame nel merito dell’istanza.
6. La domanda di rilascio di permesso temporaneo poteva essere inviata anche con modalità diversa dal kit postale (ad es. PEC o raccomandata a/r)?
L’art. 103, d.l. del 19 maggio 2020 non fa riferimento alle modalità concrete dell’inoltro delle istanze alla Questura di rilascio del permesso temporaneo, ma opera esclusivamente un rinvio al comma 16 dell’art. 103 cit., il quale stabilisce solo il termine di presentazione dell’istanza, il soggetto competente a riceverla e istruirla e la documentazione utile al positivo esito della stessa.
Tuttavia il successivo Decreto Interministeriale 27 maggio 2020 (“Modalità di presentazione dell’istanza di emersione dei rapporti di lavoro”) ha disciplinato in maniera più stringente le specifiche modalità di presentazione dell’istanza stabilendo che la stessa debba essere inoltrata al questore a mezzo Kit predisposto e reso disponibile dagli uffici di Poste italiane (cfr. D.M. del 27.5.2020, art. 3, co. 3 e art. 12, co. 1).
Si è tuttavia verificata, in non poche occasioni ed in diversi contesti territoriali, una concreta difficoltà/impossibilità a presentare tali domande a mezzo dei suddetti kit e, ciò per differenti ragioni (carenza degli stessi allo sportello dell’Ufficio postale, non accettazione da parte dell’Ufficio postale in considerazione di un ritenuto potere di effettuare una preventiva istruzione della pratica, mancanza di collaborazione da parte di alcuni dipendenti, mancanza di mediatori culturali e linguistici, etc.).
In tali casi è avvenuto che, autonomamente o con il supporto di terzi, le istanze siano state comunque presentate, ma con una modalità diversa da quella individuata, ad esempio a mezzo raccomandata a.r. ovvero a mezzo P.E.C. (dunque con strumenti tali da certificare senza ombra di dubbio la data di invio dell’istanza). A seguito delle stesse, applicando il citato decreto interministeriale del 27 maggio 2020, alcune questure hanno ritenuto tali istanze “inammissibili” o “irricevibili”, senza valutarle nel merito, solo in virtù della differente modalità di loro presentazione.
Tale lettura non può essere condivisa per diverse ragioni ed è stata, per il momento, smentita dalle decisioni che andremo ad indicare.
A tale fine occorre considerare:
- innanzitutto, la ratio della normativa si rinviene nella volontà di permettere la presentazione dell’istanza di permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi a mezzo di una procedura straordinaria e speciale rispetto alle norme del Testo Unico Immigrazione e quindi la voluntas legis è quella di un evidente favor nei confronti della persona che chiede di accedere alla procedura anche in virtù della pandemia in atto;
- la disciplina legale della procedura di emersione (art. 103, co. 2), in realtà, non prevede alcuna formalità collegata alla modalità di presentazione dell’istanza e, soprattutto, non commina alcuna “sanzione” di inammissibilità o irricevibilità della stessa solo perchè inviata con mezzo altro dal kit postale;
- la modalità di inoltro tramite il kit postale è individuata solo dal decreto interministeriale del 27 maggio 2020;
- la sanzione della inammissibilità dell’istanza è comminata dal Legislatore direttamente nei casi dallo stesso individuati al comma 8 dell’art. 103 (tra cui non rientra la modalità di invio dell’istanza);
- anche il già citato D.M. 27 maggio 2020, all’art. 7, commina la sanzione della inammissibilità della domanda a seguito del verificarsi di ipotesi assolutamente altre rispetto a quelle della modalità di invio;
- la declaratoria di inammissibilità derivante da un dato meramente formalistico contrasta palesemente con l’intento perseguito dal legislatore e con gli interessi di altissimo valore che questi ha ritenuto di perseguire.
Sulla questione delle modalità di presentazione delle istanze è intervenuto, condividendo le osservazioni di cui sopra, il TAR della Puglia, sede di Bari con diverse ordinanze collegiali (le nn. 718, 719, 721, 754, 755 e 756 del 2020) che hanno dichiarato illegittima la pretesa della Questura di dichiarare inammissibile l’istanza ai sensi dell’art. 103, co. 2, d.l. 34/2020 avanzata a mezzo PEC e non attraverso il Kit postale. La lettura ha trovato conferma con la sentenza del TAR della Puglia, sedi di Bari, n. 836/2021. In questo caso si trattava di prima istanza e non di istanza di conversione, ma potrebbe tornare utile anche nei casi di conversione perché Il TAR ha ordinato alla Questura l’esame nel merito dell’istanza.
“Domande e Risposte sulla Regolarizzazione 2020” è stato realizzato grazie al contributo di Francesco Mason, Paola Fierro, Guido Savio, Francesco Di Pietro, Luce Bonzano, Giulia Crescini, Paola Fierro, Daniele Valeri, Alberto Pasquero, Giulia Vicini, Paola Colasanto, Nazzarena Zorzella, Noris Morandi, Giovanni Barbariol e Dario Belluccio.
Note:
- Dopo aver chiarito che il concetto di organismo pubblico includeva anche soggetti pubblici, privati o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono una funzione o un’attribuzione pubblica o un servizio pubblico, l’Avvocatura rendeva un elenco esemplificativo di atti o documenti idonei a comprovare la presenza del cittadino straniero.
- FAQ del Ministero dell’Interno. FAQ n. 14: “Il datore di lavoro può presentare istanza di regolarizzazione a favore di un cittadino straniero presente sul territorio nazionale, prima dell’8 marzo. Rientrano perciò in tali categorie anche i richiedenti protezione internazionale (a prescindere da quando hanno presentato istanza), i denegati ricorrenti, gli irregolari, i possessori di permesso di soggiorno valido, gli stranieri oggetto di provvedimento di espulsione per violazione delle norme sull’ingresso ed il soggiorno (eccetto quelli previsti dal comma 10, lettera a) dell’art.103), i titolari di permesso di soggiorno non convertibile in permesso di lavoro (a titolo esemplificativo e non esaustivo studio, turismo, cure mediche, motivi religiosi, protezione speciale….).”
- Con riguardo alle domande di regolarizzazione ai sensi del 1^ comma, la Circolare del 19 giugno 2020 afferma che “Qualora lo stesso sia un richiedente asilo, al momento della stipula del contratto di soggiorno presso lo Sportello Unico, riceverà l’informativa in relazione alla possibilità di poter mantenere attiva o meno la procedura di protezione internazionale. Lo straniero che abbia deciso, dopo aver ricevuto l’informativa e firmato il contratto di soggiorno, di proseguire nell’iter previsto per il riconoscimento della protezione internazionale. potrà ottenere un permesso di soggiorno per lavoro subordinato, cartaceo, recante la dicitura “R”, valido esclusivamente sul territorio nazionale. In tale contesto, in favore dello straniero che abbia optato unicamente per il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato, il relativo permesso sarà emesso in formato elettronico, nel rispetto dei requisiti previsti dal D.Lgs. n.286/1998 e dal relativo Regolamento di attuazione.”
- Si veda Ammissioni e Soggiorno, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza.