Discriminatoria l’esclusione dei figli di stranieri residenti all’estero ai fini dell’ottenimento degli assegni familiari

La Provincia di Brescia è, a quanto risulta, l’unica dove la locale sede INPS ha attivato controlli sulla residenza dei familiari dei lavoratori stranieri richiedendo poi ingenti restituzioni – in qualche caso di oltre 10.000 euro – ai lavoratori che, secondo l’Istituto, avrebbero percepito indebitamente l’assegno per figli e moglie per i periodi nei quali gli stessi si erano ri-trasferiti in patria; talvolta per frequentare la scuola nella lingua madre, altre volte per rimediare al calo di reddito derivante dai lunghi periodi di sospensione in Cassa Integrazione, altre volte semplicemente per mantenere un legame con il paese d’origine: casi di famiglie che vivono l’esperienza migratoria attraverso dolorose separazioni.

La questione giuridica nasce dal fatto che la L. 153/88 non prevede affatto – ai fini di determinare il nucleo familiare sul quale viene poi parametrato l’assegno – né il vincolo della convivenza, né il vincolo della residenza in Italia, essendo quindi pacifico che il figlio minore stabilmente residente ad es. in Argentina, viene computato nel nucleo familiare del lavoratore italiano.

Non così per il lavoratore straniero, per il quale il familiare entra nel nucleo solo se residente in Italia (art. 2 , comma 6, L. 153 cit.) .

Tale disparità non solo è del tutto irrazionale (l’assegno “ordinario” per il nucleo familiare – a differenza di quello per famiglie numerose – è una prestazione previdenziale finanziata con un contributo pagato dalle imprese sulle retribuzioni dei dipendenti e dunque è ancora più illogico che vengano operate distinzioni tra lavoratori che versano la medesima contribuzione) ma è evidentemente in contrasto con i principi di parità fissati dalle direttive comunitarie: nel caso esaminato dal Tribunale di Brescia veniva in questione il vincolo di parità di cui all’art. 11 direttiva 2003/109 (i ricorrenti erano tutti lungosoggiornanti)   ma analoga conclusione varrebbe ora per tutti i titolari di “permesso unico”, ai sensi dell’art. 12 direttiva 2011/98.

Da rilevare anche le condivisibilissime conclusioni del Tribunale (disattese invece in una precedente pronuncia di altro giudice che, pur accogliendo la domanda, aveva motivato molto sommariamente) secondo le quali vi è ovviamente discriminazione anche qualora l’Istituto ritenga erroneamente di aver operato sulla base di una disposizione di legge, allorchè invece tale disposizione risulti invece da disapplicare: l’obbligo di applicazione diretta del diritto comunitario (ove ne sussistano le condizioni), grava infatti su tutti gli organi della pubblica amministrazione e non solo sull’autorità giudiziaria.

La sentenza del Tribunale di Brescia del 14 aprile 2015