Divieto di ingresso col velo integrale nelle strutture sanitarie: cartelli della Regione “grezzi” ma non discriminatori

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La Corte d’Appello di Milano con sentenza depositata il 28 ottobre 2019, ha confermato la decisione del Tribunale di Milano sul divieto di ingresso con velo integrale negli edifici del servizio sanitario regionale.

La vicenda ha inizio nel 2015 quando negli ospedali e ASL della Lombardia sono comparsi cartelli con il logo della Regione Lombardia recanti tre immagini di persone con casco, passamontagna e velo integrale, ciascuno all’interno di un cerchio rosso sbarrato;  il tutto accompagnato dalla scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”.

Poche settimane prima la Giunta regionale aveva adottato una delibera con la quale demandava ai dirigenti regionali l’adozione di misure idonee a rafforzare la sicurezza “vietando l’uso di caschi protettivo di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”.   

Si trattava quindi di una mera “delibera quadro” che – come poi emerso nel corso del giudizio –  aveva poi avuto applicazione, per quanto riguarda gli uffici regionali, con un atto dirigenziale che si limitava a imporre (come peraltro sempre avvenuto per chiunque) il riconoscimento al momento dell’ingresso.

Restava quindi la questione dei cartelli che, come pure emerso nel corso del giudizio, erano stati affissi senza alcun atto dirigenziale applicativo e senza alcuna regolamentazione sicché, ad esempio, neppure era indicato cosa avrebbe dovuto accadere in caso di urgenza. 

Le Associazioni ASGI, APN, NAGA e Fondazione Piccinni hanno quindi proposto ricorso in appello, dopo la decisione negativa di primo grado, essenzialmente contro questa modalità di divieto che non faceva alcun tentativo di contemperare le esigenze di sicurezza perseguite dalla Regione con le esigenze di tutela della identità religiosa delle (peraltro pochissime) donne che ritengono di indossare il velo integrale.

La Corte d’appello ha riconosciuto che “si tratta di una modalità comunicativa piuttosto grezza  e dalle incerte conseguenze” che “alcune delle argomentazioni spese dagli appellanti sono condivisibili” e ha censurato “la mancata disponibilità della Regione ad una ipotesi transattiva proposta anche dalla Corte che appariva del tutto ragionevole”.

Per tutelare il diritto alla libertà religiosa e parimenti tutelare il diritto all’identificazione per questioni di sicurezza occorrerebbe, secondo la Corte, adottare provvedimenti o atti amministrativi analitici o indicazioni scritte più articolate, necessariamente differenziate a seconda delle plurime e diverse strutture del SSR.

Ciononostante ha ritenuto di respingere il ricorso per la difficoltà di individuare, da parte del giudice, soluzioni idonee a contemperare le diverse esigenze.

Le associazioni ricorrenti prendono atto di tale conclusione, che non condividono,  ma ritengono necessario precisare che:

  • La questione esaminata era esclusivamente quella delle (presunte)  esigenze di sicurezza in un numero limitato di edifici pubblici e non ha quindi nulla a che vedere con il divieto  generalizzato del velo in tutti i luoghi pubblici  quale esigenza del “vivere insieme” come emersa, ad esempio,  nella vicenda francese.
  • Il contemperamento delle esigenze deve avvenire attribuendo la giusta rilevanza a tutti i diritti in gioco, quello alla salute, quello alla sicurezza e quello alla identità religiosa, per quanto espressa in forme lontane dalla nostra cultura.
  • Compito della politica è ricercare il punto più alto di equilibrio tra queste esigenze, non certo quello di affiggere “grezzi” cartelli marchiando con un segno rosso la donna portatrice del velo.
  • La sentenza della Corte d’Appello, per quanto non condivisibile nelle sue conclusioni, contiene sicuramente anche un invito a una seria ricerca in questo punto di ragionevole equilibrio che rifugga da comportamenti meramente ideologici. Le associazioni continueranno quindi a operare perché la politica sappia raccogliere questo invito.

Nonostante il segnale di apertura del giudice di appello, rimane ancora lunga e impervia la strada verso una piena tutela contro le discriminazioni di natura religiosa o etnico-religiosa.

La sentenza

Foto Pixabay

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