Corte di Cassazione, sezione I civile, ordinanza dell’11 novembre 2019, n. 29056

In tema di protezione internazionale, l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (“country of origin information”) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio.

 


 

Sul ricorso 30062/2018 proposto da:

Xxxxx, elettivamente domiciliato l’avvocato Faggiani Guido lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Dalla Bona Roberto

-ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro tempore

– intimato

 avverso la sentenza n. 800/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 15/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/09/2019 da RUSSO RITA

RILEVATO CHE

1. Xxxxxx ha chiesto la protezione internazionale, raccontando di essere fuggito dalla Nigeria nel 2006, per sottrarsi alle intimidazioni della confraternita degli Ogboni, che volevano reclutarlo forzatamente; narra di avere soggiornato in Libia fino al 2013 e che dopo la morte della moglie, uccisa dai militari quando era al quinto mese di gravidanza, si era trasferito a Malta, dove gli era negato l’asilo. Racconta di essere rientrato in Nigeria il 30 aprile 2014 e che qui era stato minacciato dal fratello della moglie, che lo riteneva responsabile della sua morte. Racconta infine di avere appreso dalla madre che il fratello della moglie lo cercava, unitamente ad altre persone armate, per ucciderlo, e di avere appreso sempre dalla madre che anche i membri della setta degli Ogboni lo cercavano per costringerlo ad affiliarsi.

2.- La Commissione territoriale competente ha negato il riconoscimento della protezione; innanzi al Tribunale, il ricorso avverso la decisione della Commissione è stato respinto. Il ricorrente ha proposto appello, limitatamente al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria. La Corte lo ha respinto, affermando che il racconto difetta di credibilità: in particolare, sul rischio di reclutamento forzato dalla setta degli Ogboni, si osserva che il racconto non è coerente con le informazioni sul paese di origine (COI) desunte dal Report pubblicato dall’Immigration Board of Canada. La Corte nega la protezione sussidiaria anche per violenza indiscriminata, non presente nella zona sud Nigeria, sulla quale il richiedente asilo non ha dato riscontro individualizzante. Viene negata anche la protezione umanitaria, osservando che il soggetto non è neppure integrato in Italia perché non ha un lavoro regolare.

3.-Propone ricorso per cassazione il richiedente asilo, affidandosi a cinque motivi. Non si è costituito il Ministero.

RITENUTO CHE

4.- Con il primo motivo di ricorso, si deduce l’error in procedendo con violazione dell’art. 111 Cost.,dell’art 35 del D.Igs. 25/2008 e dell’art. art 32 comma 3 del D.Igs. 25/2008, in quanto la

Corte d’appello: a) ha pronunciato sulla questione della (non) riconoscibilità dello status di rifugiato sebbene non fosse oggetto di appello; b) ha deciso con lo stesso rito previsto dall’art 35 del D.Igs. 25/2008 la domanda di protezione umanitaria, soggetta invece a rito ordinario, così arrecando un vulnus alla difesa.

Il motivo è infondato. In ordine allo status di rifugiato, la Corte ha affermato che la domanda non era oggetto di appello e comunque non avrebbe potuto riconoscersi, non avendo la parte dedotto atti persecutori per i motivi previsti dall’ad 7 del Digs. 251/2007. Si tratta pertanto non di una decisione, ma di una premessa che serve a definire l’oggetto della effettiva pretesa.

In ordine al rito sulla domanda di protezione umanitaria, si osserva che è la stessa parte a dedurre di averla richiesta con il ricorso in opposizione alla decisione della Commissione territoriale, in uno allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. Si tratta quindi di un caso di domande cumulate, peraltro in un processo regolato dall’art. 35 del D.Igs. 25/2008 nella formulazione previgente alla riforma operata con D.L.del 17.2. 2013, convertito dalla legge n. 46/17, cui si applica il rito camerale (Cass. 9658/2019, Cass. 1648/2019).

La parte ha volontariamente proposto la domanda di protezione umanitaria nel giudizio di primo grado e poi in grado d’appello, chiedendone in quella sede il riconoscimento in via subordinata alla del richiedente- avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda o in subordine separarla, è quindi inammissibile, perché sul punto non si configura una soccombenza in rito della parte, che ha scelto essa stessa il rito applicabile, e perché si tratta di argomento che non risulta essere stato proposto nei precedenti gradi di giudizio.

5.- Il secondo ed il terzo motivo di ricorso riguardano la protezione sussidiaria – si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 3 del D.Igs. 251/2007, 8 del D.Igs. 25/2008, 111 Cost. e della Direttiva 2004/83/CE. La parte deduce che il giudice d’appello non avrebbe seguito i criteri posti dall’art 3 del D.Igs. 251/2007 concentrandosi solo sull’elemento della veridicità del racconto, senza analizzare né la personalità del richiedente, né il contesto socio culturale di provenienza e senza verificare la condizione dell’ordine pubblico in Nigeria, nonché il quadro di generale di violenza diffusa ed instabilità sociale ed economica presente nel Paese. Le censure devono essere esaminate unitamente al quinto motivo di ricorso, per ragioni di stretta connessione. Con il quinto motivo, infatti, la parte lamenta un error in procedendo ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., atteso che le informazioni sul paese di origine, utilizzate dal giudice per valutare il rischio di affiliazione forzata ad una setta, in quanto sorreggono la decisione negativa, avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposte al contraddittorio. Deduce quindi la violazione dell’art. 101 c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost. e degli artt. 6-46-47 della CEDU.

L’esame dei motivi richiede una premessa di carattere generale sull’attività officiosa di acquisizione di informazioni sui paesi di origine dei richiedenti asilo, e sul dovere del giudice di sottoporle preventivamente al contraddittorio.

5.1.- Il quadro normativo sul dovere di cooperazione e sulla acquisizione delle COI.

Il quadro normativo in tema di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, ed in particolare sul dovere di cooperazione del giudice e sulla acquisizione delle informazioni sul paese di origine, in acronimo COI (Country of origin information), è fissato essenzialmente dal D.Igs. 251/2007, in particolare dall’art. 3 e dal D.Igs.25/2008, in particolare dall’art. 8.

L’ad 3 del D.Igs. 251/2007, dopo aver premesso, al comma primo, che l’esame della domanda di protezione internazionale è svolto in cooperazione con il richiedente, dispone al comma 3

“L’esame della domanda di protezione internazionale è effettuato su base individuale e prevede la valutazione: a) di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese, ove possibile, le disposizioni legislative e regolamentari del Paese d’origine e relative modalità di applicazione; b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente, che deve anche rendere noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi; c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave; d) dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente,

dopo aver lasciato il Paese d’origine, abbiano mirato, esclusivamente o principalmente, a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; e) dell’eventualità che, in considerazione della documentazione prodotta o raccolta o delle dichiarazioni rese o, comunque, sulla base di altre circostanze, si

che possa presumere che il richiedente potrebbe far ricorso alla protezione di un altro Paese, di cui potrebbe dichiararsi cittadino”.

Al comma 4 si prevede che: “Il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno e purché non sussistono gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine”.

Ed infine il comma 5 prevede che “Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”.

La norma sopra riportata stabilisce, pertanto, in deroga all’ordinario principio dispositivo proprio del processo civile, il principio di cooperazione, in attuazione della Direttiva 2004/83/CE, ove ancora più esplicitamente è detto (art. 4) che “lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda” e ciò nell’ottica di “assicurare il pieno rispetto della dignità umana, il diritto di asilo dei richiedenti asilo e dei familiari al loro seguito” (considerando n. 10). L’attività officiosa di cooperazione è, conseguentemente, un obbligo ex lege dello Stato, considerato nel suo complesso, e quindi vincola anche il giudice, organo dello Stato.

Una specificazione del dovere di cooperazione è la acquisizione delle COI, che, secondo la lett. c) del comma 3 dell’art. 3 citato, non sono (soltanto) le informazioni offerte dal richiedente, ma più in generale le informazioni di cui “si dispone”. La relativa disciplina è contenuta nell’art. 8 comma 3 del D.Igs. 25/2008, il quale prevede che “Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa”. La norma deve essere letta alla luce della Direttiva 2005/85/CE, di cui essa costituisce attuazione, la quale, all’art. 38, prevede che “gli Stati membri provvedono affinché nell’ambito di tale procedura: c) l’autorità competente sia in grado di ottenere informazioni esatte ed aggiornate da varie fonti, come, se del caso, dall’UNHCR, circa la situazione generale esistente nei paesi di origine degli interessati; d) se su ogni singolo caso sono raccolte informazioni ai fini del riesame dello status di rifugiato, esse non

siano ottenute dai responsabili della persecuzione secondo modalità che potrebbero rivelare direttamente a tali responsabili che l’interessato è un rifugiato il cui status è oggetto di riesame e che potrebbero nuocere all’incolumità fisica dell’interessato e delle persone a suo carico o alla libertà e alla sicurezza dei familiari rimasti nel paese di origine”.

Già dall’esame di queste disposizioni legislative e dal tenore delle Direttive, delle quali costituiscono attuazione, si possono trarre alcune prime considerazioni utili alla valutazione dei motivi di ricorso:

a)La domanda del richiedente asilo non può essere valutata con il criterio posto dall’art. 2697 c.c., in virtù del quale il mancato o incompleto assolvimento dell’onere della prova da parte dell’attore comporta il rigetto della domanda: il giudice, dopo aver verificato che il richiedente ha fatto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e che ha prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e giustificato la (eventuale) mancanza di altri elementi, deve acquisire le “informazioni” che consentono di valutare al tempo stesso la attendibilità del racconto e la concretezza ed attualità del rischio;

b)II dovere di cooperazione imposto al giudice dalla normativa nazionale e internazionale non può esercitarsi con modalità potenzialmente dannose per il soggetto;

c) La Commissione nazionale per l’asilo non è il soggetto che produce le informazioni, né il soggetto che ne attesta l’attendibilità, ma l’organo statale che le raccoglie, le elabora e le rende disponibili, sulla base dei dati “forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale. Ciò significa anche che la Commissione nazionale non è l’esclusiva titolare del potere -dovere di acquisire questi dati, ma semplicemente un tramite, poiché le informazioni sono assunte, come specifica la Direttiva, da “varie” fonti e sono di regola fornite dagli enti e dalle agenzie internazionali che si occupano della tutela dei diritti umani. Questi soggetti rendono disponibili le informazioni non solo alla Commissione, ma anche direttamente agli operatori, tramite i canali della formazione obbligatoria per le autorità che si occupano della protezione internazionale (art 36 della Direttiva 2004/83/CE) e in genere anche al pubblico; si deve qui ricordare che l’EASO, una delle principali agenzie che provvede alla raccolta e pubblicazione delle informazioni, è una agenzia della UE, che nasce anche per provvedere alla formazione comune in materia di asilo, e pubblica le informazioni sul suo sito web; anche altre agenzie internazionali che operano sul campo rendono noti al pubblico i propri Report, pubblicati in supporto cartaceo, ovvero tramite il web (i c.d. portali);

d)Le informazioni devono essere esatte, aggiornate ed anche pertinenti, vale a dire idonee a valutare lo specifico rischio cui può essere esposto il richiedente asilo come desumibile dal suo racconto, e non altri e diversi rischi di persecuzione, violenza o trattamenti inumani cui in ipotesi potrebbero essere esposti altri e diversi soggetti, in situazioni diverse. In particolare, non possono considerarsi informazioni pertinenti quelle relative a rischi che non sono tutelati tramite la protezione internazionale, quale ad esempio il rischio generalizzato di subire un crimine comune cui sarebbe più o meno esposto il viaggiatore di nazionalità italiana in paesi terzi o della stessa UE.

5.2.- La ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sul dovere di cooperazione e sulla acquisizione delle COI.

Per ricostruire l’attuale quadro giurisprudenziale, deve muoversi dalla fondamentale sentenza delle sezioni unite di questa Corte del 17.11.2008, n. 27310, la quale così fissa il principio, dopo avere

esaminato la normativa in materia di protezione internazionale:

«risulta così delineata una forte valorizzazione dei poteri istruttori officiosi prima della competente Commissione e poi del giudice, cui spetta il compito di cooperare nell’accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale, acquisendo anche di ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica del Paese di origine». Il principio è stato ulteriormente specificato da Cass. n.19197/2015: «il principio dispositivo nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al d.lgs. 28.1.2008, n. 25, art. 8, che prevedono

particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale». Nell’esercitare i suoi poteri officiosi, il giudice non può introdurre nel thema decidendum un fatto nuovo o diverso da quello allegato dal ricorrente, ma deve attenersi al racconto reso da quest’ultimo, e da qui la importanza di una corretta e completa audizione e della sua verbalizzazione ovvero videoregistrazione (ex multis: Cass. n. 5973/2019; Cass. n. 28424/2018), salvo in ogni caso il potere del giudice di qualificare diversamente la misura di protezione appropriata al rischio in concreto prospettato dalla parte (Cass. 7333/2015). Il compito del giudice si definisce, pertanto, nell’integrare “i/ giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente con l’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese” (cfr. Cass. n. 16202/2012; Cass. n. 10202/2011), mentre di contro il potere- dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva contenuti nell’art. 3 del D.Igs. 251/2007 (cfr. Cass. n. 7333/2015). Anche la Direttiva 2004/83/CE, peraltro, definisce il dovere di cooperazione non già in termini inquisitori, come ricerca officiosa di fatti, bensì sotto il profilo dell’esame e valutazione dei fatti portati dal richiedente, laddove all’art. 4 specifica che “lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda”. Ancora nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto, dando conto anche della loro datazione; che le COI devono essere aggiornate al momento della decisione, poiché il rischio deve essere valutato nell’attualità e, nell’ipotesi in cui le fonti istituzionali previste dalla norma risultino insufficienti o di difficile ricezione, il giudice si può avvalere di fonti integrative purché qualificate ed inerenti all’oggetto della ricerca (Cass. n. 11302/2019; v. anche Cass. 16411/2019; Cass. 11312/2019; Cass. 28990/2018; Cass. 7333/2015; Cass. 3347/2015; Cass. 563/2013).

In definitiva, la normativa nazionale, in attuazione delle Direttive UE, prevede una deroga all’ordinario regime dell’onere della prova, considerando sufficiente all’accoglimento della domanda il racconto del richiedente asilo se completo, circostanziato, tempestivo, intrinsecamente coerente e compatibile con le condizioni politiche, economiche e normative del paese di origine. Il racconto del richiedente asilo è dunque, al tempo stesso, allegazione dei fatti rilevanti e prova degli stessi, il cui esame deve però compiersi in base a un dato che il giudice può e deve acquisire anche d’ufficio, e cioè le informazioni sul paese di origine, parametro di valutazione della attendibilità del racconto nonché di valutazione del rischio: è questo il criterio-guida che il giudice deve utilizzare per l’esame della domanda.

La ricerca delle COI, come già affermato da questa Corte, è “integrazione istruttoria” (Cass. n. 16411/2019) e non totale sostituzione del giudice alla parte nei suoi doveri di offrire, nei limiti delle possibilità date dalla sua peculiare condizione, fatti, riscontri ed elementi di prova, tanto che si è specificato, nella giurisprudenza di questa Corte, che il predetto dovere deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro riferirsi a circostanze non dedotte (Cass. 30105/2018). Da precisare ulteriormente che, nel caso in cui si affievolisca l’importanza del riscontro individuale, entro i limiti rigorosi indicati dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakitè C- 285/12) – e cioè quando la violenza indiscriminata sul territorio raggiunge livello talmente elevato da far ritenere che un civile correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio di cui all’art. 14 lett. c) del D.Igs. 251/2007 – il potere dovere di acquisire le COI discende direttamente dalla allegazione della provenienza dalla zona interessata dal conflitto (v. Cass. 17069/2018).

Così delimitato e definito il compito del giudice, di cooperazione con la parte e non sostituzione ad essa, nonché le relative modalità di svolgimento, improntate a criteri di trasparenza, la terzietà dell’organo giudicante non ne risulta in alcun modo compromessa.

5.3.- Le COI e il contraddittorio.

Resta da esaminare la questione se il giudice debba

preventivamente sottoporre al contraddittorio le COI che egli intende utilizzare ai fini della decisione e se, in difetto, si configuri una violazione dell’art. 101 c.p.c. ovvero, più in generale, del diritto alla difesa e del principio del giusto processo (artt. 111 e 24 Cost., art. 6 CEDU).

In primo luogo, deve richiamarsi quanto sopra esposto sull’onere del richiedente asilo di allegare e circostanziare tutti i fatti rilevanti che lo riguardano e di rendere un racconto per quanto possibile completo e specifico, poiché il dovere di cooperazione del giudice non si estende alla ricerca dei fatti storici, intesi come vicende personali che hanno interessato il richiedente asilo. L’audizione è il momento centrale dell’intero procedimento, in cui la Commissione, o eventualmente il giudice di merito, consente al richiedente di rendere un racconto completo delle sue vicende, il che definisce il thema decidendum che il giudice non può e non deve modificare, essendo chiamato piuttosto a verificare l’attendibilità del racconto sia in base agli ordinari criteri di valutazione delle dichiarazioni rese dalla parte (coerenza, specificità), sia in base ad un criterio extra ordinem espressamente imposto dalla legge, e cioè la compatibilità con le COI, che sono peraltro necessarie anche al fine di valutare il rischio al momento della decisione; per questa ragione, se la parte ha offerto in visione le COI al momento in cui introduce la domanda, e tra essa e il momento della decisione trascorre del tempo o accadono eventi rilevanti, il giudice le integra con COI più aggiornate (Cass. 28990/2018).

La circostanza che il giudice non possa modificare i fatti posti a fondamento della domanda, il cui onere di allegazione grava sul richiedente, già di per sé esclude in radice che possa prospettarsi, per il solo fatto della assunzione officiosa delle COI, una c.d. sentenza della terza via, intesa nel senso di una pronuncia che modifichi o ampli il thema decidendum, con conseguente violazione dell’art. 101 c.p.c. (in arg., Cass. n.11456/2014; Cass. n.315/2019). Le COI devono infatti essere pertinenti, vale a dire mirate a gettare luce sui fatti già dedotti dal ricorrente, ed il concetto stesso di pertinenza va necessariamente coniugato con quello della loro attualità. Inoltre, sul diritto di difesa, è da rilevare che la denuncia di vizi fondati sulla violazione di norme processuali non deve essere visto in funzione meramente “autoreferenziale”, e cioè di tutela dell’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma in un’ottica funzionale a garantire, piuttosto, l’eliminazione del pregiudizio concretamente sofferto dal diritto di difesa della parte (Cass. n. 18635/ 2011; Cass. n. 1201/2012 Cass. n. 26831/ 2014; Cass. n. 6330/ 2014; Cass. n. 15037/2018). Si tratta di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la quale, da tempo, ha affermato che l’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. “non è volto a tutelare un astratto interesse alla regolarità dello ius dicere (e non trasforma, pertanto, il ricorrente nell’Ombudsman del processo civile), ma presidia e tutela, per converso, un diritto all’eliminazione di eventuali vulnera subiti in concreto dalla parte istante in dipendenza del denunciato error in procedendo” (Cass. sez. un. n.20935/ 2009; v. anche Cass. n. 2984/ 2016).

In altre parole, la parte che lamenti la violazione del diritto di difesa e del giusto processo deve specificare in cosa consiste il concreto pregiudizio subito, e non semplicemente dedurre la violazione della norma procedurale o genericamente riferirsi alla lesione del diritto di difesa.

Applicando questi principi alla questione delle COI, deve dirsi che, qualora la parte non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del paese di origine – e cioè informazioni idonee a supportare la valutazione di credibilità e la valutazione del rischio – la acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana -purché il racconto abbia i requisiti di cui si è detto- l’inerzia della parte, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, né lede in alcun modo i suoi diritti.

In virtù del dovere di cooperazione il giudice verifica, infatti, se sussista una chance, alla luce della COI come sopra assunte, di accoglimento dell’istanza di protezione, quale che sia poi in concreto l’esito della causa. Nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purché renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione, nel merito o sulla legittimità della procedura di acquisizione.

Diverso è il caso in cui la parte abbia esplicitamente indicato COI, aggiornate e pertinenti, specificamente riferite al rischio che è stato dedotto, indicandone la fonte, la data e prendendo posizione sulle condizioni del paese di origine, sulla loro incidenza nella posizione individuale del richiedente, e su come le COI indicate consentano di ritenere il racconto attendibile, nonché concreto ed attuale il rischio dedotto.

In tal caso, ove in ipotesi il giudice ritenga di utilizzare altre COI, di fonte diversa o più aggiornate, che depongono in senso opposto a quelle offerte dal richiedente, egli dovrà sottoporle preventivamente al contradditorio, perché diversamente si arrecherebbe, in concreto, un irredimibile vulnus al diritto di difesa.

6.- Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in subiecta materia, possono esaminarsi i motivi di ricorso, che sono infondati.

La Corte ha specificamente e motivatamente dato conto delle ragioni per le quali non ha ritenuto credibile la storia del ricorrente, in particolare sul punto della persecuzione da parte del fratello della moglie, analizzando e stigmatizzando le contraddizioni intrinseche del racconto, l’assenza di qualsiasi ragionevole sforzo per circostanziarlo e in generale la non attendibilità anche in ragione dei tempi, assai risalenti, in cui sono avvenuti i fatti narrati. Il giudice d’appello ha quindi correttamente applicato le regole procedimentali poste dall’art 3 del D.Igs. 251/2007 – e la valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, non sindacabile in questa sede (Cass. 27503/2018) se non per motivazione manifestamente illogica o meramente apparente. E’ inoltre principio ormai consolidato, come sopra si è detto, che, nel caso in cui le dichiarazioni siano giudicate del tutto inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso sulla prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine (Cass. 16925/2018; Cass. 28862/2018).

Nella specie, il giudice del merito, in ordine al dedotto pericolo del reclutamento forzato da parte della setta degli Ogboni, ha assunto informazioni officiose sul paese di origine indicandone specificamente la fonte (Report dell’Immigration Board of Canada). Le informazioni non sono state preventivamente sottoposte al contraddittorio, ma la parte non deduce un concreto pregiudizio subito quale conseguenza di questa omissione: in particolare, non specifica se aveva offerto, sul punto, COI di diverso contenuto che, ove valutate, avrebbero potuto condurre ad un diverso esito del processo.

Il ricorrente si limita difatti, a riaffermare apoditticamente la credibilità delle sue dichiarazioni perché “plausibili” e riferite a vicende “che in Nigeria realmente si verificano”, ma non indica quali diversi elementi caratterizzanti il contesto sociale del paese di provenienza il giudice avrebbe dovuto valutare, né a quali fonti avrebbe dovuto fare riferimento. Non si spiega, poi, quale attività difensiva sarebbe stata preclusa, non si deduce il difetto di pubblicità e rintracciabilità delle informazioni usate, né tantomeno si afferma che alla fonte indicata dal giudicante non corrispondano effettivamente quelle informazioni, né quali informazioni -in ipotesi di maggiore attendibilità e precisione- si sarebbero potute opporre per contrastare quelle utilizzate dal giudice (cfr. in arg. Cass. 23032/2019).

Appare, inoltre, del tutto generico lo stesso il riferimento alla “Nigeria” senza altre precisazioni, atteso che si tratta di un paese vastissimo, composto da ben 37 diversi Stati, ognuno dei quali connotantesi per caratteristiche proprie e diverse, sia sotto l’aspetto

legislativo che per cultura e tradizioni religiose. Altrettanto generici sono i riferimenti alle culture tribali, al livello di tutela dei diritti fondamentali nel paese di origine e alle condizioni di instabilità del paese, anche qui senza specifici riferimenti allo Stato di provenienza del ricorrente – che, come si apprende dalla sentenza della Corte d’appello, è l’Edo State, nel sud del paese, lontano da quegli Stati del nord ove risulta attiva l’organizzazione denominata Boko Haram. Si deve osservare, quanto al rischio di cui all’art. 14 lett. c) del Dlgs 251/2007, che la Corte di merito ha correttamente rilevato come il ricorrente non fornisca il benché minimo riscontro individualizzante sul rischio di essere esposto a violenza indiscriminata, né specifici riferimenti a tale rischio sono contenuti nel ricorso per cassazione, al di là delle generiche affermazioni di cui si è detto, mentre di contro il giudice d’appello ha motivatamente escluso la ricorrenza di un conflitto di intensità tale (v. CGUE, Egafaji, sopra citata) da poter prescindere dal riscontro individuale.

La sentenza impugnata resiste pertanto a queste censure.

7.- Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento all’art. 5 comma 6 del D.Igs. 286/1998, all’art. 2 Cost., all’art. 8 CEDU e alla Direttiva 2004/83/CE, nonché l’error in procedendo.

Il motivo è inammissibile per assoluta genericità, e ciò rende superflua la sospensione del procedimento in attesa della decisione delle sezioni unite di questa Corte sulle questioni sollevate con le ordinanze interlocutorie nn. 11749, 11750, 11751 del 2019, depositate il 3 maggio 2019, (v. Cass. n. 22851/2019)

La censura si limita, difatti, ad una generica esposizione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria per concludere che la Corte d’appello avrebbe errato nel fare riferimento allo stesso quadro probatorio già valutato per il riconoscimento dello status e della protezione sussidiaria, mentre di contro la valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria è autonoma.

La parte sovrappone due profili distinti: il quadro probatorio e cioè la vicenda del richiedente asilo così come ricostruita nel processo, e la valutazione dei presupposti per il riconoscimento della misura di protezione. Osserva il Collegio che, pur essendo la valutazione dei presupposti certamente autonoma, nel senso che il rigetto delle misure maggiori non pregiudica(va) la possibilità di riconoscimento della protezione umanitaria già vigente nell’ordinamento ai sensi dell’art. 5 comma 6 (Cass. 28990/2018), l’esame della domanda non può che fondarsi sulla valutazione di quei fatti che il ricorrente ha dedotto e allegato, e che, in esito allo scrutinio del giudice, si ritengono provati – fermo restando il generale principio per cui taluni fatti possono essere considerati irrilevanti o marginali ai fini del riconoscimento di una misura di protezione ed essere invece considerati fondamentali ai fine del riconoscimento di altra misura, o del riconoscimento della sussistenza di una delle causa di non refoulement ex art. 19 del D.Igs. n. 286/ 1998.

Ne consegue il rigetto del ricorso. Nulla sulle spese in difetto di costituzione della controparte.

Il richiedente è ammesso al patrocinio a spese dello Stato e pertanto non è tenuto è tenuto al versamento del contributo unificato, stante la prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 11 e 131 del DPR 115/2002, e, di conseguenza, neppure dell’ulteriore importo di cui all’art. 13, comma 1- quater, del decreto citato (cfr, Cass. 7368/2017; n. 32319 del 2018),se ed in quanto l’ammissione non risulti revocata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, camera di consiglio del 24 settembre 2019