Relazione del procuratore generale della Corte suprema di Cassazione

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Giovanni Salvi, procuratore generale della Corte suprema di Cassazione da novembre 2019, ha pubblicato una relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019. Di seguito le sezioni dedicate all’immigrazione e al diritto di asilo.

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27. Le scelte sulle politiche migratorie e di ingresso nel territorio dello Stato competono al Legislatore e al Governo, purché nel quadro di compatibilità con le norme costituzionali e pattizie, prima tra tutte l’obbligo che il nostro Paese ha assunto per la protezione internazionale di coloro che ne hanno potenzialmente diritto.

In altra parte di questo intervento si esaminano alcuni aspetti dei c.d. de- creti sicurezza. Ma se di sicurezza si parla, è bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano.

L’esperienza che in questi anni si è fatta, ad esempio, con la diffusione del lavoro nero in agricoltura e con il crescere di forme di oppressione che vanno persino oltre il caporalato, dovrebbe essere messa a frutto. Gli agglomerati spontanei di lavoratori, privati di un contratto legale e di un trattamento dignitoso, sono una vergogna per il nostro Paese e una grave minaccia per la sicurezza. Questa situazione è ingestibile persino per i datori di lavoro, che vorrebbero poter ricorrere a un mercato del lavoro legale, in regime di concorrenza non falsata e senza il rischio delle gravi conseguenze penali derivanti anche per l’imprenditore dalla nuova disciplina dell’intermediazione ex art. 603-bis c.p. Essa incide sull’accesso al lavoro dei cittadini italiani, perché non si tratta di “lavori che gli italiani non vogliono fare”, ma di lavori che vengo- no oggi svolti in condizioni disumane e prive di dignità.

Mentre da anni sono chiusi i canali di ingresso legali e ormai non viene nemmeno più redatto nei tempi prescritti il decreto flussi, la cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento (sanitario, di insegnamento dell’italiano, di formazione professionale, di alloggio) creeranno tra breve un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società, rese cioè clandestine.

Ciò deve essere evitato per molte ragioni, ma per una sopra ogni altra: rendere il nostro Paese ancora più sicuro.

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d.2) La protezione internazionale

L’avvio delle Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea presso i Tribunali distrettuali e la contemporanea eliminazione del giudizio di appello, per effetto del decreto legge n. 13 del 2017 (c.d. decreto Minniti-Orlando), convertito dalla legge n. 46 del 2017, ha comportato un notevole incremento dei ricorsi ed una parallela introduzione – in sede di legittimità – di numerose e rilevanti tematiche riguardanti la protezione internazionale.

La successiva adozione del decreto legge n. 113 del 2018, convertito dalla legge n. 132 del 2018 (che ha introdotto rilevanti modifiche alla disciplina dell’immigrazione con l’eliminazione, nella normativa generale, di ogni riferimento al permesso di soggiorno per motivi umanitari), ha a sua volta costituito occasione per l’esame di delicate questioni relative al regime di protezione umanitaria e al diritto intertemporale applicabile, in assenza di disposizioni transitorie.

Sul tema, meritano di essere segnalati alcuni recenti interventi scritti (requisitoria del 15 gennaio 2019 e requisitoria del 24 settembre 2019) che hanno esaminato in maniera approfondita le disposizioni introdotte dal decreto legge n. 113 del 2018 anche al fine di valutare, data la assoluta novità della questione giuridica, l’impatto (di natura intertemporale) con le situazioni giuridiche pendenti, nelle quali il diritto può dirsi già entrato a far parte delle situazioni soggettive (con valenza sostanziale e di rilevanza costituzionale) invocabili dallo straniero entrato nel territorio nazionale.

La problematica giuridica è stata inquadrata nell’ambito dei diritti fondamentali (di matrice umanitaria) che riguardano lo stato delle persone e che trovano evidenti ed importanti legami in principi di rilevanza costituzionale quali la garanzia di “diritti inviolabili dell’uomo” e la realizzazione del “pieno sviluppo della persona umana” esplicitati nei primi due articoli della Costituzione.

In questo contesto, la peculiare natura del diritto (alla protezione umanitaria) e la sua indiscutibile rilevanza è stata ritenuta tale da integrare una condizione giuridica di esistenza precedente persino il suo effettivo accertamento.

È questa la ragione per cui si è ritenuto non corretto parlare di un “riconoscimento” (del diritto e del correlato status) ma di “accertamento” del diritto e dello status di protezione, trattandosi di situazioni sostanziali che preesistono e che hanno una autonoma valenza giuridica, ancor prima che il soggetto decida concretamente di invocare l’applicabilità del diritto. Di conseguenza, si è affermato come il diritto alla protezione umanitaria, che sia già entrato a far parte del corredo individuale dei diritti (per effetto della normativa vigente al momento in cui la persona di nazionalità straniera abbia formalizzato la domanda di protezione), non può essere dimidiato, o diversamente interpretato, o eliminato sulla base di una normativa sopravvenuta che non ha regolato il regime transitorio.

Tali considerazioni, variamente argomentate nelle citate requisitorie, hanno contribuito in modo determinante alla elaborazione del principio di diritto poi enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 29460 del 2019.

La decisione su menzionata, nell’escludere l’applicazione in via retroattiva della nuova disciplina, ha condiviso le originarie impostazioni suggerite dalla Procura generale relative alla non immediata applicazione del decreto legge n. 113 del 2018 nella parte in cui ha abrogato l’art. 5, comma 6, del T.U. in materia di immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998) – norma che consentiva anche alle Commissioni territoriali di riconoscere al richiedente asilo la protezione umanitaria, se rifiutata la protezione internazionale (rifugio politico o protezione sussidiaria).

Ne consegue che le domande di riconoscimento del permesso di soggior- no per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge dovranno essere esaminate secondo la previgente normativa, con diritto al rilascio, se riconosciuta la tutela umanitaria, ad un permesso di soggiorno per “casi speciali”, di durata biennale e convertibile alla sua scadenza.

L’elaborazione dell’Ufficio ha riguardato anche i presupposti della protezione umanitaria con una valorizzazione dell’integrazione sociale, in attuazione dell’art. 2 della Costituzione e dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da qui in avanti indicato con l’acronimo “CEDU”, affermando la necessità di una comparazione della situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza con il rischio di violazione dei diritti fondamentali in caso di rientro nel Paese di origine. Si tratta di diritti fondamentali che non costituiscono un catalogo chiuso.

Altro filone da segnalare, nell’ambito del ruolo propulsivo svolto dalla Procura generale, è quello relativo alla valutazione delle situazioni di apolidia, in relazione ai diritti di permanenza nel territorio e ai provvedimenti di espulsione legati a casi di pericolosità sociale. Nell’intervento spiegato a cura della Procura generale si è evidenziato che anche le Nazioni Unite hanno sempre raccomandato ai singoli Stati di attuare correttamente la Convenzione di New York del 1954 e di legiferare in modo tale da assicurare una protezione effettiva alle persone che si trovino in tale peculiare situazione; inoltre, si è sottolineato come la legislazione italiana, pur attenta ad evitare la creazione di nuovi apolidi, sia carente di una disciplina organica per la protezione delle persone prive di qualsiasi cittadinanza.

La mancanza di una normativa puntuale rende spesso complessa la soluzione di alcune questioni giuridiche in materia di apolidi o di richiedenti lo status di apolidi, dal momento che tali questioni devono essere risolte in via interpretativa, richiamandosi alle norme internazionali o alle disposizioni interne in materia di stranieri.

Si è concluso pertanto, al fine di demarcare la linea di applicabilità della Convenzione, che ogni individuo le cui condizioni soddisfino i requisiti enunciati nell’articolo 1 della stessa Convenzione del 1954 è da considerarsi apolide.

Il riconoscimento di apolidia che consegue alla sentenza di un giudice ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva, con la conseguenza che lo status dovrà applicarsi retroattivamente dalla data in cui le condizioni si sono verificate.

In applicazione delle argomentazioni suddette, trattandosi di una questione nella quale appariva opportuno che la Corte di cassazione dettasse criteri interpretativi certi, volti a favorire l’uniforme applicazione e l’unità del diritto oggettivo, la Procura generale ha formulato il principio di diritto da applicare alle fattispecie di apolidia di fatto nei seguenti termini: “ai fini della espulsione di un apolide non è possibile procedere se non nella ipotesi contemplata dall’art. 31 della Convenzione di New York, ovvero nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico; tale normativa si estende, in via analogica, anche alle situazioni di apolidia di fatto e/o nelle more del procedimento per accertare lo stato di apolidia qualora la situazione del soggetto fosse già emergente dalle informazioni e dalla documentazione delle Autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale potesse ravvisarsi un collegamento significativo con il soggetto interessato”.

Tale principio di diritto è scaturito inevitabilmente dalla considerazione dei valori costituzionali di protezione della persona nel raccordo con i principi della Convenzione citata, che prevede una istruttoria adeguata tale da consentire alla persona di difendersi e di farsi difendere prima che l’espulsione sia eseguita, nonché di accordargli un termine ragionevole per consentirgli di farsi ammette- re in un altro Stato, fatta salva la facoltà di applicare misure di ordine interno.

Del resto, là dove non si dia seguito a tale principio di diritto potrebbe ve- rificarsi una condizione formale di non eseguibilità dei provvedimenti di espulsione.

La prima sezione civile della Corte di cassazione, con la sentenza n. 16489 del 19 giugno 2019, ha recepito integralmente il principio di diritto esplicitato dalla Procura generale.

Il settore della protezione internazionale, per l’incremento esponenziale dei ricorsi e per l’avvicendarsi delle diverse regolamentazioni normative, è stato oggetto di riflessione e di approfondimento nel tentativo costante di armonizzare la giurisprudenza nazionale e di affermare l’intramontabile valore dei diritti umani nel quadro dei principi costituzionali e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Va infine rilevato che l’analisi della provenienza dei ricorsi che pervengono in Cassazione suscita domande, la cui risposta richiede un approfondimento, sia statistico, sia di analisi della tipologia di ricorsi nel merito. Risultano infatti diversità non giustificabili nella provenienza dei ricorsi, tali da indicare approcci radicalmente diversi nel merito, che stentano ad essere riconosciuti. Appare difficilmente comprensibile che – a fronte di numeri sostanzialmente corrispondenti nei vari distretti nell’iscrizione dei ricorsi in primo grado – vi siano differenze che superano di molte volte il 100%. Ciò sembra indice di diversità di approccio al tema e dunque di non prevedibilità della decisione, quando questa venga vista a livello globale. Il tema sarà oggetto di approfondimento, anche sotto il profilo dei criteri di impugnazione del pubblico ministero.


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