La configurazione di navi quarantena è una delle misure messe in campo dal governo per la gestione degli arrivi di cittadini stranieri in tempo di pandemia. A quasi due mesi dall’avvio di tale sperimentazione, è possibile tracciare un primo bilancio relativo all’adeguatezza e alle criticità di questa misura.
Il primo esperimento è stato svolto a bordo della nave Rubattino, della Tirrenia, che ha ospitato 183 persone tra il 17 aprile e il 5 maggio. Il 19 aprile il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha avviato una procedura per il noleggio di unità navali per l’assistenza e la sorveglianza sanitaria dei migranti in arrivo sulle coste italiane o soccorsi nell’ambito di operazioni SAR. La Moby Zazà è stata quindi individuata quale “nave quarantena” in grado di ospitare fino a 250 persone. 160 migranti, risultati negativi al tampone, hanno lasciato la nave il 30 maggio.
L’emanazione del controverso Decreto interministeriale n. 150 del 7 aprile 2020 ha dato il via alla ridefinizione delle procedure successive allo sbarco. Il provvedimento stabilisce che, durante l’emergenza sanitaria provocata dalla diffusione del Covid-19, i porti italiani non possano essere classificati come luoghi sicuri, place of safety, per lo sbarco dei migranti.
Il 12 aprile è stato poi pubblicato il Decreto n. 1287/2020 del Capo Dipartimento della Protezione civile con cui è stato affidata al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno la gestione delle procedure legate all’isolamento fiduciario e alla quarantena dei cittadini stranieri soccorsi o arrivati autonomamente via mare. Sulla base di questo decreto il ministero dell’interno, insieme alla Croce Rossa Italiana, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria “con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro)”. Questa indicazione, apparentemente sibillina, fa riferimento alle persone di cui al decreto del 7 aprile, ossia alle persone soccorse fuori dalla SAR italiana da navi battenti bandiera straniera per i quali i porti italiani non potrebbero considerarsi “luoghi sicuri”. I migranti che sbarcano in maniera autonoma, cioè non a seguito di operazioni SAR, dovrebbero in prima battuta svolgere il periodo della quarantena in strutture di accoglienza sul territorio e non sulle navi, a meno che non sia per qualche motivo impossibile individuare tali strutture, come di fatto è accaduto per molte persone sbarcate in Italia negli ultimi mesi.
La previsione delle cd. navi quarantena è densa di molteplici criticità. Innanzitutto si tratta di un dispositivo privativo della libertà personale che differisce in maniera lampante dalle misure a cui sono stati sottoposti i cittadini stranieri giunti in Italia con altri mezzi. Il Decreto interministeriale del 17 marzo prevedeva infatti che le persone in arrivo dall’estero, in assenza di sintomi, dovessero comunicare il proprio rientro al dipartimento di prevenzione della ASL e sottoporsi a isolamento fiduciario e sorveglianza sanitaria per un periodo di 14 giorni. Si tratta quindi di una formula dai caratteri discriminatori.
Per quanto riguarda le condizioni in cui si trovano le persone all’interno della nave, le parole del Garante nazionale per i diritti dei detenuti dipingono con efficacia la situazione della Moby Zaza: “alla […] giocosa immagine dipinta sullo scafo, corrisponde drammaticamente la realtà di chi, scappato presumibilmente da guerre o da prigionie, attende lo scorrere della, pur doverosa, quarantena con mancanza di informazioni certe e di supporto contro la disperazione”.
L’utilizzo delle navi per lo svolgimento della quarantena assume un importante valore simbolico sia per i migranti sottoposti alla misura, sia nell’ambito del dibattito politico legato al tema dello sbarco e della condivisione della responsabilità fra gli stati dell’Unione Europea in materia di migrazioni.
Infine, alcuna notizia è stata diffusa circa le procedure che vengono attuate sulle navi, sul supporto che viene o meno fornito ai cittadini stranieri, sulle eventuali indagini di polizia svolte a bordo e sui soggetti che operano a bordo.
Per tale motivo è stata inviata una richiesta di accesso agli atti al Ministero dell’Interno e al Ministero della Salute per conoscere le procedure attuate a bordo, le modalità con cui sono state svolte e i soggetti coinvolti.
Dalle prime risposte pervenute dal Dipartimento Libertà Civile e Immigrazione, in qualità di soggetto attuatore, si evince esclusivamente che la Croce Rossa Italiana è responsabile delle misure di assistenza sanitaria, di mediazione linguistico culturale, assistenza sociale, supporto psicologico e identificazione delle vulnerabilità.
Infine, particolare attenzione merita il futuro di tale modalità: le politiche di gestione delle migrazioni degli ultimi anni ci insegnano che le maggiori novità sono state introdotte per gestire le emergenze. Gli stessi centri hotspot sono nati nel 2015 come misura straordinaria per far fronte a un momento in cui il numero di persone in arrivo in Italia e in Grecia era estremamente elevato di arrivi. Tale sistema, terminata “l’emergenza”, ha tuttavia continuato a operare ed è entrato a pieno titolo nella gestione ordinaria delle migrazioni, rivoluzionandola e introducendo gravi violazioni dei diritti dei cittadini stranieri.
Occorre quindi vigilare affinché le navi quarantena non diventino l’apripista di “navi hotspot”, “piattaforme hotspot” o altri sistemi per evitare l’approdo in Italia dei cittadini stranieri soccorsi in mare. Le condizioni delle navi, il loro isolamento strutturale, il difficile monitoraggio e l’impossibilità di ingresso da parte della società civile, rendono tale formula assolutamente inadeguata per lo svolgimento delle delicate operazioni di accoglienza, informazione, definizione della condizione giuridica dei cittadini stranieri.
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