Corte Costituzionale, sentenza del 19 aprile 1985, n. 113 dd del 23 aprile 1985

La normativa comunitaria entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato; e cio’ tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell’immediata applicabilita’. Tale principio vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia.

Corte Costituzionale, sentenza 19 aprile 1985, n. 113.
[Deposito in cancelleria: 23 aprile 1985. Pubblicazione in “Gazz. Uff.” n. 107 bis dell’8 maggio 1985]

 

 

SENTENZA n.  113

19 APRILE 1985

Deposito in cancelleria: 23 aprile 1985.

Pubblicazione in “Gazz. Uff.” n. 107 bis dell’8 maggio 1985.

Pres. ELIA – Rel. LA PERGOLA

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA – Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO – Prof. GIUSEPPE BORZELLINO – Dott. FRANCESCO GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688 convertito in legge 27 novembre 1982, n. 873 (Conversione in legge del decreto-legge 30 settembre 1982, n. 688, recante misure urgenti in materia di entrate fiscali) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 26 gennaio 1983 dal Tribunale di Trieste nel procedimento civile vertente tra la S.p.A. B.E.C.A. e l’Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritta al n. 287 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 239 del 1983;

2) ordinanza emessa il 18 marzo 1983 dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento civile vertente tra l’Amministrazione finanziaria dello Stato e la S.a.s. Latte Campagna, iscritta al n. 412 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 295 del 1983;

3) ordinanza emessa il 18 marzo 1983 dalla Corte d’appello di Trieste nel procedimento civile vertente tra l’Amministrazione finanziaria dello Stato e la S.p.A. Dukcevich, iscritta al n. 591 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 355 del 1983;

4) ordinanza emessa il 29 aprile 1983 dalla Corte d’appello di Torino nel procedimento civile vertente tra l’Amministrazione finanziaria dello Stato e la S.p.A. Gervais Danone Italiana, iscritta al n. 592 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 349 del 1983;

5) ordinanza emessa il 25 febbraio 1983 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria dello Stato c/ditta Tomatis Aldo, iscritta al n. 593 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 342 del 1983;

6) tre ordinanze emesse il 21 marzo 1983 dal Tribunale di Ancona nei procedimenti civili vertenti tra la S.p.A. Carapelli, la società Industrie Chimiche Italiane, la ditta Ferruzzi Serafino e l’Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritte ai nn. 678, 679 e 680 del registro ordinanze 1983 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 336 del 1983;

7) ordinanza emessa il 26 maggio 1983 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra l’Amministrazione finanziaria dello Stato e Adinolfi Antonio, iscritta al n. 710 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46 del 1984;

8) ordinanza emessa il 21 gennaio 1983 dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento civile vertente tra l’Amministrazione finanziaria dello Stato e la S.p.A. Bax Lorenzo, iscritta al n. 723 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39 del 1984;

9) ordinanza emessa il 20 aprile 1983 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra la Commissionaria Sud Import e l’Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritta al n. 1001 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 81 del 1984;

10) ordinanza emessa il 20 aprile 1983 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra la S.p.A. I.R.C.A. e l’Amministrazione finanziaria dello Stato, iscritta al n. 1002 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica n. 81 del 1984;

11) ordinanza emessa il 22 giugno 1983 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria dello Stato c/la S.p.A. Consorzio Approvvigionamenti Alimentari, iscritta al n. 1006 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 1984.

Visti gli atti di costituzione della S.p.A. B.E.C.A., della S.a.s. Latte Campagna, della S.p.A. Gervais Danone Italiana, della ditta Tomatis Aldo, della Commissionaria Sud Import, della S.p.A. I.R.C.A., della S.p.A. CON.AL nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 dicembre 1984 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

uditi gli avvocati Pier Luigi Bonifazi per la S.p.A. B.E.C.A. La Commissionaria Sud Import e la S.p.A. I.R.C.A., Massimo Severo Giannini per la S.a.s. Latte Campagna, la S.p.A. Gervais Danone e la S.p.A. CON.AL, Guido Scarpa e Lucio Fiorino per la ditta Tomatis Aldo e l’Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto:

1. – Con le 13 ordinanze indicate in epigrafe, varie autorità giudiziarie sollevano, in riferimento a più parametri di costituzionalità, la questione avente ad oggetto l’art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688, convertito nella legge 27 novembre 1982, n. 873, nella parte in cui prevede il diritto degli importatori al rimborso di tributi, il cui pagamento, in base alla normativa C.E.E., non è dovuto, ma lo subordina alla prova documentale che essi importatori non si siano rivalsi nei confronti dei loro acquirenti.

La Corte di cassazione, con due ordinanze di analogo contenuto emesse il 25 febbraio e il 22 giugno 1983, solleva la questione di costituzionalità dell’art. 19 suddetto in riferimento agli artt. 3, 11 e 24 Cost.. La Suprema Corte ritiene rilevante la questione in relazione al carattere retroattivo della norma, che impone agli importatori, anche per fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore, ai fini del rimborso in questione, la prova documentale della non avvenuta traslazione.

La pretesa violazione dell’art. 3 Cost. deriverebbe dal trattamento che discrimina fra chi ha pagato il tributo in questione, e chi invece è soggetto al pagamento di altri tributi, riguardo ai quali il diritto al rimborso non è condizionato alla suddetta prova documentale.

La diversità di previsione normativa non troverebbe giustificazione in una (inesistente) diversità di situazioni dei soggetti sottoposti all’uno o agli altri tipi di imposta.

La violazione dell’art. 24 deriverebbe dall’avere la norma impugnata introdotto anche per il passato una modificazione delle condizioni oggettive dell’azione per il rimborso.

Viene osservato dalla Cassazione che le scritture contabili di cui agli artt. 2214 e segg. del codice civile rispondono ad esigenze che non possono essere collegate alla necessità di provare la non avvenuta traslazione di tributi indebitamente pagati, necessità imposta peraltro con effetto retroattivo. La ricostruzione retrospettiva dei singoli elementi del prezzo presenterebbe enormi difficoltà, e comunque non consentirebbe a posteriori un accertamento relativo all’avvenuta traslazione.

Con riguardo, poi, alla pretesa violazione dell’art. 11 Cost. viene osservato dalla Corte di cassazione che la norma denunciata ha praticamente reso impossibile l’esercizio del diritto al rimborso, diritto che si basa sulla normativa C.E.E..

Si sono costituite in entrambi i giudizi di costituzionalità le società importatrici, adducendo sostanzialmente le medesime argomentazioni della Corte di cassazione. Quanto in particolare all’impossibilità di accertare l’effettivo verificarsi della traslazione, viene osservato che a determinare il prezzo non è il numero delle voci che lo compongono, ma soprattutto la domanda dei compratori del prodotto.

Quindi il vizio della norma starebbe soprattutto nel richiedere la prova della non avvenuta traslazione, e ciò a prescindere dal suo contenuto documentale e dall’estensione del relativo onere anche a fattispecie anteriori all’entrata in vigore della norma: elementi, questi ultimi, che pur rappresentano circostanze aggravanti l’incostituzionalità della norma.

È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato. In relazione alla pretesa violazione dell’art. 3, l’Avvocatura rileva anzitutto che la particolarità della situazione giustifica la deroga al principio generale del regime probatorio fissato dall’art. 2033 del codice civile.

La norma legislativa denunciata ha voluto evitare che il consumatore, oltre al danno derivante dalla rivalsa operata nei suoi confronti dall’importatore, subisse anche la beffa di essere chiamato ad approntare i mezzi finanziari per il pagamento, da parte dell’erario, di somme indebitamente ricevute dagli importatori, e da questi ultimi già recuperate.

Con riferimento alla pretesa violazione dell’art. 24 Cost., e in particolare alla tesi secondo la quale le scritture contabili, che le imprese importatrici dovrebbero conservare, hanno differente funzione rispetto a quella di provare la non avvenuta traslazione del costo del tributo non dovuto, viene osservato che qualunque sia la funzione originaria di un documento, esso può ben essere utilizzato come elemento probatorio determinante (il che avviene, com’è noto, in primo luogo in campo penale).

Una delle parti private costituitesi in una memoria aggiuntiva rileva che la legge n. 4 del 1929 impone la conservazione delle scritture contabili per soli cinque anni, di modo che, per il passato, gli operatori non potrebbero ricostruire nemmeno l’ammontare del prezzo di vendita.

Se pure la norma censurata avesse voluto creare un nuovo elemento costitutivo del diritto al rimborso, in ogni caso essa non avrebbe mai potuto o dovuto avere efficacia retroattiva.

2. – La questione avente ad oggetto l’art. 19 del d.l. n. 688/82 è sollevata in riferimento agli artt. 3, 11, 23 e 24 Cost. anche dalla Corte di appello di Torino, con due ordinanze di identico contenuto emesse il 18 e 19 marzo 1983. La fattispecie oggetto dei giudizi a quibus riguarda la restituzione di somme dovute a titolo di diritti di visita sanitaria.

Osserva il giudice a quo che richiedere una prova in precedenza non necessaria per l’esercizio dell’azione di rimborso rende particolarmente problematico quest’ultimo. Di qui la precisa violazione degli artt. 24 e 23 Cost..

L’art. 19, peraltro, sarebbe irrazionale e quindi in contrasto con l’art. 3 Cost. a causa della sua retroattività; l’azione di restituzione dei diritti doganali sarebbe più problematica rispetto all’azione per la restituzione del normale indebito oggettivo di cui all’art. 2033 del codice civile.

Per la stessa ragione la norma denunciata sarebbe in contrasto anche con l’art. 11 Cost.. Infatti la Corte di Lussemburgo, nella nota pronuncia emessa in data 27 marzo 1980, ha affermato che le modalità previste dai singoli Stati per far salva nell’applicazione del principio del divieto dei dazi doganali la possibilità di impedire il rimborso nell’ipotesi di avvenuta traslazione non potessero prevedere situazioni per l’importatore meno favorevoli di quelle garantite in via generale dalle normative nazionali.

Le società importatrici, costituitesi davanti a questa Corte, rilevano che la norma denunciata va considerata come norma di adeguamento alla sentenza della C.G.C.E. 27 marzo 1980; quindi come tale non avrebbe potuto determinare per il rimborso condizioni che non sono previste per l’esercizio del diritto al rimborso di analoghi tributi.

Dalle suddette considerazioni la difesa di parte privata deduce appunto la violazione degli artt. 3 e 11 Cost..

Quanto poi alla violazione degli artt. 23 e 24 Cost., la difesa definisce la norma censurata una vera e propria espropriazione del diritto di difesa. La prova richiesta sarebbe infatti da ritenersi giuridicamente impossibile. Inoltre, il concetto di immissione del tributo nel prezzo di vendita di prodotti importati con riguardo anche ai prodotti trasformati, determinerebbe un’ulteriore irrazionalità della norma denunciata e di conseguenza il contrasto con l’art. 3 Cost.. Ciò vale con riguardo anche ai prodotti non trasformati, i cui prezzi siano fissati liberamente dal mercato. Solo con riferimento ai prezzi amministrati può esservi una scomposizione del prezzo nelle sue varie componenti (come nel caso dei prezzi dei medicinali). Quindi non vi è obbligo per il venditore di dare conto nel prezzo di un costo economico dovuto al pagamento del dazio doganale, né può provarsi che egli ne abbia tenuto conto al momento della vendita.

Anche nei giudizi introdotti con le ordinanze della Corte d’appello di Torino interviene, per tramite dell’Avvocatura dello Stato, il Presidente del Consiglio. L’Avvocatura rileva che la norma denunciata non richiede certo un documento che comprovi in via diretta che l’importatore non si sia rivalso del costo del tributo non dovuto attraverso il prezzo applicato. Logicamente deve ritenersi che la norma in questione richieda l’esibizione di uno o più documenti dai quali possa ricavarsi la dimostrazione della non avvenuta traslazione sul prezzo del suddetto costo.

Per quanto riguarda la censura relativa alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., nel presupposto che la prova della non traslazione implicherebbe la possibilità di scomporre il prezzo nelle sue singole componenti, viene osservato che, per quel che riguarda i pagamenti avvenuti dopo l’entrata in vigore della legge, il rilievo sarebbe infondato in quanto l’I.V.A. e il relativo meccanismo di fatturazione fornirebbero una chiara guida, sulla cui scia si colloca nella sua ratio la norma denunciata.

Con riguardo ai pagamenti anteriori all’entrata in vigore della legge, da un lato l’Avvocatura osserva che la prova richiesta è assai facile, quando il bene importato non sia stato trasferito; in caso diverso è comunque fisiologico per un’impresa commerciale in regime di libero mercato trasferire sul prezzo del bene al consumo i propri costi. Così, l’impossibilità di provare la non traslazione dimostrerebbe che essa si è effettivamente verificata.

Qualora tuttavia per motivi eccezionali l’impresa avesse dovuto produrre in perdita, di ciò, come in particolare della non avvenuta traslazione, dovrebbe facilmente trovarsi traccia nelle scritture contabili.

Le suddette considerazioni valgono, ad avviso dell’Avvocatura, anche a dimostrare l’infondatezza della tesi della pretesa violazione dell’art. 11 Cost.. Va infatti rilevato che la stessa Corte di Giustizia della C.E.E. ha ammesso che gli Stati membri potessero limitare il diritto al rimborso nell’ipotesi di avvenuta traslazione; unica condizione posta dalla Corte è che l’azionabilità del relativo diritto non sia resa impossibile. Ora, dato che si è sostenuta l’infondatezza della censura formulata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., conseguentemente sarebbe infondata anche quella che fa riferimento all’art. 11, in considerazione della non omogeneità delle situazioni regolate rispettivamente dall’art. 2033 codice civile e dalla norma denunciata.

3. – Con ordinanza emessa il 18 marzo 1983 anche la Corte di appello di Trieste solleva la questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 19 in esame, in riferimento al solo art. 11 Cost., richiamando anch’essa la sentenza 27 marzo 1980 della Corte comunitaria.

Il Presidente del Consiglio, per tramite dell’Avvocatura dello Stato, rileva che, con la sopravvenuta sentenza della C.G.C.E. 9 novembre 1983, è stato affermato che i singoli Stati non possono subordinare il rimborso dei tributi trasferiti su altri soggetti quando il tipo di prova renda impossibile l’esercizio del relativo diritto.

Ora, ad avviso dell’Avvocatura, non sarebbe questo il caso della prova richiesta dall’art. 19 e ciò per i motivi che già sono stati addotti nei precedenti interventi: la Corte ha in sostanza ritenuto illegittima la presunzione assoluta dell’avvenuta traslazione, non la prova che in base all’art. 19 può concretamente essere portata dall’importatore.

4. – Con ordinanza emessa il 21 gennaio 1983 anche la Corte di appello di Milano solleva la medesima questione di costituzionalità, con argomenti in larga parte già esposti in relazione alle altre ordinanze precedentemente esaminate.

In particolare, però, con riguardo al regime probatorio viene rilevato che la traslazione “è quel modus operandi connaturale allo svolgimento di qualsiasi attività economica e professionale in forza del quale ogni onere finanziario di qualsiasi natura sopportato dal soggetto agente viene trasferito sui consumatori di beni e/o di servizi prestati mediante la fissazione di un prezzo (o il ricarico di prezzo nel caso della intermediazione) opportunamente dimensionato per garantire tutto l’utile netto compatibile con il mantenimento della domanda”.

Ne deriverebbe che la deroga al normale regime dell’azione di ripetizione non può però giustificarsi per il solo fatto che gli importatori “si sono limitati a richiedere il corrispettivo della prestazione eseguita secondo una misura indistintamente riferita – come di consueto – sia al recupero delle spese e dei costi, sia al guadagno o utile netto”.

Di qui, ancora, l’impossibilità della prova, non potendosi distinguere nel prezzo ciò che deriva dai costi da ciò che attiene agli utili dell’importatore venditore.

La difesa di parte privata costituitasi rileva come la Commissione Giustizia del Senato si sia pronunziata, in sede di con versione, contro l’approvazione della norma, ritenendola incostituzionale. Anche alla Camera il relatore di maggioranza ha mostrato forti perplessità.

Per il resto, la difesa non adduce nuove argomentazioni rispetto a quelle del giudice a quo.

L’Avvocatura dello Stato adduce a sostegno dell’infondatezza argomentazioni analoghe a quelle relative agli altri giudizi.

5. – Il Tribunale di Trieste, con ordinanza emessa il 26 gennaio 1983, ha ritenuto che l’art. 19 in questione, con l’impedire sostanzialmente (dovendosi ritenere diabolica la prova il cui onere è posto a carico dell’importatore) il rimborso di somme pagate indebitamente all’erario, violerebbe non solo l’art. 24 Cost., ma interferirebbe anche con la funzione giurisdizionale e quindi con la tutela ad essa garantita dal combinato disposto degli artt. 101, 102 e 104 Cost..

Nel presente giudizio la società importatrice, costituitasi a sostegno della pretesa violazione dei sopraindicati parametri di costituzionalità, ripete sostanzialmente le medesime argomentazioni addotte dal giudice a quo.

È intervenuto il Presidente del Consiglio per tramite dell’Avvocatura dello Stato. Quanto alla pretesa lesione degli artt. 101, 102 e 104 Cost., l’Avvocatura sostiene che nell’ordinanza del giudice a quo vi sarebbe stata una confusione fra occasio legis e finalità della norma, sorvolandosi sui caratteri di generalità e di astrattezza della disposizione destinata a regolamentare la repetitio indebiti.

La norma impugnata andrebbe inquadrata, a giudizio dell’Avvocatura, fra quelle che mirano a garantire una maggiore tutela del consumatore.

La pretesa interferenza della norma censurata nei confronti dell’attività giurisdizionale inoltre non sussisterebbe, tanto più che nel caso di specie il giudice non si sarebbe sincerato della possibilità dell’istante di opporre la prova a suo favore.

L’Avvocatura dello Stato osserva ancora che questa Corte con la sentenza n. 118 del 1957 ha già escluso la lesione della sfera garantita al potere giudiziario ad opera di una legge che obblighi il giudice ad applicarla, in relazione a fattispecie pregresse.

Quanto alla pretesa violazione dell’art. 24 osserva l’Avvocatura che il considerare probatio diabolica quella cui fa riferimento l’art. 19, è frutto del non attento esame del contesto normativo in cui viene ad inserirsi la norma denunciata. Infatti, rileva l’Avvocatura, da un lato il diritto alla restituzione dell’indebito si prescrive nel termine ordinario di dieci anni, e dall’altro la bolletta doganale è l’unico documento che provi il pagamento dei diritti erariali, e ciò evidentemente anche agli effetti del diritto alla restituzione.

Inoltre, in base all’art. 2220 c.c. le scritture delle imprese commerciali vanno conservate per dieci anni dall’ultima registrazione e così pure le fatture, le lettere e i telegrammi.

Infine, sulla base dell’art. 39 del d.P.R. n. 633/1972 sull’I.V.A., registro, bollettari, schedari, tabulati e gli altri documenti prescritti vanno conservati anche oltre il termine dell’art. 2220, quando siano pendenti contestazioni.

6. – Anche il Tribunale di Ancona, con tre ordinanze emesse tutte in data 21 marzo 1983, e dall’identica motivazione, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 19, in riferimento agli artt. 11, 23 e 24 Cost..

A differenza delle altre ordinanze di rimessione, qui non si fa il benché minimo riferimento alla fattispecie concreta, oggetto dei giudizi a quibus. In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo adduce considerazioni analoghe a quelle già in precedenza riassunte.

Anche l’Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio, non adduce, a sostegno dell’infondatezza delle censure rivolte, nuove argomentazioni.

7. – Con due ordinanze di identico contenuto emesse il 20 aprile 1983 la questione dell’art. 19 è sollevata, inoltre, dal Tribunale di Roma in riferimento, oltre che agli artt. 3, 11 e 24, anche all’art. 113 Cost..

Il Tribunale sostiene il contrasto dell’art. 19 con l’art. 113 Cost., in quanto all’amministrazione che è parte in causa “non è consentito riformare le norme in base alle quali essa è stata condannata, al solo scopo di impedire che le sentenze di condanna abbiano esecuzione”.

Circa gli altri parametri invocati, il giudice a quo adduce sostanzialmente considerazioni simili a quelle contenute nelle altre ordinanze di rimessione.

Le parti private costituitesi rilevano, quanto al contrasto con l’art. 113 Cost., che esso porrebbe in risalto la “sostanziale immoralità” della norma denunciata con cui lo Stato supera tutta una serie di giudizi in varie sedi, tutti ad esso contrari.

A sostegno della presunta violazione dell’art. 24 Cost. vengono riportati ampi brani della sentenza 9 novembre 1983 della C.G.C.E., alla luce della quale, oltre che della precedente sentenza 27 marzo 1980, sarebbe fondata la questione di costituzionalità anche con riferimento all’art. 11 Cost..

Interviene anche nei presenti giudizi l’Avvocatura con identici atti di intervento, nei quali osserva che il ricorso a prove orali avrebbe comportato uno scarso grado di attendibilità delle stesse.

Ritiene poi l’Avvocatura che non sussiste il contrasto con il combinato disposto degli artt. 11 e 24, sul presupposto dell’impossibilità di individuare nel prezzo complessivo del prodotto venduto dall’importatore la quota dovuta al pagamento dell’indebito tributo: infatti, a parte l’ipotesi della non avvenuta vendita del bene importato, la prova della non avvenuta traslazione potrà avvenire anche attraverso le scritture contabili o altri documenti in possesso delle Camere di Commercio.

Quanto alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., viene rilevato che la norma denunciata si riferisce oltre che ai tributi di carattere doganale, anche ai tributi interni e che al pagamento dell’indebito tributo non corrisponde (al contrario di quanto avviene per le ipotesi cui fa riferimento l’art. 2033 codice civile) un definitivo danno economico per l’importatore. Di qui l’insussistenza dell’irragionevolezza della disposizione legislativa impugnata.

Non sussisterebbe infine la violazione dell’art. 113 Cost., in quanto la norma in questione non preclude certo il ricorso giurisdizionale contro gli atti illegittimi di imposizione fiscale.

Una delle parti private costituitesi ha presentato una memoria aggiuntiva, in cui, con riguardo al richiamo fatto dall’Avvocatura alla necessità per l’importatore di conservare le scritture contabili, viene osservato come da esse sia comunque impossibile ricavare gli elementi per stabilire se sia o meno avvenuta la traslazione.

8. – Infine, la normativa in esame è censurata anche dal Tribunale di Genova con ordinanza del 26 maggio 1983, in riferimento agli artt. 3, 11 e 24 Cost..

Né le argomentazioni del giudice a quo né quelle dell’intervenuto Presidente del Consiglio si discostano sostanzialmente da quelle già esposte relativamente agli altri giudizi.

9. – In prossimità dell’udienza l’Avvocatura dello Stato ha presentato una memoria aggiuntiva relativa a tutti i giudizi in cui è intervenuta.

Dopo aver sintetizzato le argomentazioni addotte in tali interventi, con riguardo alla pretesa violazione dell’art. 11 Cost., ritiene che alla luce della sentenza 9 novembre 1983 della C.G.C.E. non possano trovare applicazione i principi enunciati nella sentenza n. 170/84 di questa Corte.

Secondo l’Avvocatura la caratteristica del caso ora all’esame della Corte sarebbe individuabile nella mancanza di un concorso di norme, non essendovi la norma comunitaria di raffronto.

In tale situazione la stessa Corte costituzionale ha previsto che la norma nazionale continui ad essere efficace.

Di fronte, poi, all’ipotesi che il giudice possa disapplicare la norma nazionale non in quanto contrastante con la specifica norma regolamentare comunitaria, ma con un principio dell’ordinamento comunitario, l’Avvocatura osserva che questa Corte ha ribadito nella suddetta sentenza che permane la propria competenza quando viene ad essere intaccato appunto un principio fondamentale del Trattato di Roma, e pertanto il giudice a quo non potrebbe disapplicare la norma, ma dovrebbe sollevare la questione di costituzionalità avente ad oggetto la norma nazionale in riferimento alla pretesa violazione dell’art. 11 della Costituzione.

10. – Nell’udienza pubblica dell’11 dicembre 1984 il giudice La Pergola ha svolto la relazione e l’Avvocatura dello Stato e le difese delle parti private hanno ribadito le rispettive conclusioni.

Considerato in diritto:

1. – La presente questione è sollevata, come si spiega in narrativa, dalla Corte di cassazione, dalle Corti di appello di Milano, Torino e Trieste, dai Tribunali di Ancona, Genova, Trieste e Roma. In tutti i provvedimenti di rinvio si censura l’art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688 (convertito in legge 27 novembre 1982, n. 873). Tale norma, nella parte che qui interessa, è così testualmente formulata: “Chi ha indebitamente corrisposto diritti doganali all’importazione, imposte di fabbricazione, imposte di consumo o diritti erariali, anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ha diritto al rimborso delle somme pagate quando prova documentalmente che l’onere relativo non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti salvo il caso di errore materiale.

“La prova documentale di cui al comma precedente deve essere fornita anche quando le merci, in relazione alle quali il pagamento è stato operato, siano state cedute dopo lavorazione, trasformazione, montaggio, assemblaggio o adattamento di esse.

“Le merci si presumono cedute nei casi previsti dall’articolo 53, primo e secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

I giudici rimettenti assumono che, con il subordinare alle condizioni stabilite nella norma testé citata il rimborso delle somme indebitamente percette dall’amministrazione – si tratta infatti, secondo i casi, di diritti di visita sanitaria, di diritti di servizi amministrativi, o di altri oneri fiscali di effetto equivalente al dazio doganale, comunque incompatibili con l’ordinamento del Mercato Comune – il legislatore abbia offeso più statuizioni del testo fondamentale. Tutte le ordinanze di rinvio, tranne quella del Tribunale di Trieste (R.O. 287/83), denunciano la violazione dell’art. 11 Cost., prospettando l’asserita inosservanza del Trattato istitutivo della C.E.E. nonché del diritto comunitario. La questione è poi posta in riferimento ad altri parametri, con il dedurre la violazione del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), del diritto di difesa (art. 24 Cost.), della riserva di legge in materia di prestazioni imposte (art. 23), dei precetti costituzionali che consacrano la esclusiva soggezione del giudice alla legge (art. 101, secondo comma), o in varia guisa sanciscono e tutelano l’autonomia della funzione giurisdizionale (artt. 101, 102, 104 e 113 Cost.).

2. – Data la sostanziale identità della questione, i giudizi promossi con le ordinanze in epigrafe sono riuniti e definiti con un unica sentenza.

3. – L’attenzione va subito fermata su due rilievi di ordine preliminare.

3.1. – Successivamente all’emanazione dei provvedimenti introduttivi dell’attuale giudizio, la Corte ha emesso nuove pronunce con riguardo ai rapporti fra il diritto comunitario e le confliggenti disposizioni del legislatore nazionale. In base a tali decisioni (cfr. sentenze n. 170/1984, 47 e 48/1985) spetta, precisamente, al giudice ordinario accertare che la specie cada sotto il disposto della disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. e immediatamente applicabile nel territorio dello Stato: in questo caso la regola comunitaria riceve necessaria ed immediata applicazione, pur in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello Stato, non importa se anteriore o successiva. Il risultato così raggiunto è generalmente accolto negli ordinamenti interni degli Stati membri della C.E.E., risponde all’esigenza di garantire uniformità e certezza di criteri applicativi del diritto comunitario in tutta l’area del Mercato Comune e va inteso in stretta connessione con il fondamentale criterio che, secondo la giurisprudenza della Corte, governa i rapporti fra l’ordinamento dello Stato e quello della comunità: i due sistemi sono reciprocamente autonomi e, al tempo stesso, coordinati secondo le previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma oggetto, in forza dell’art. 11 Cost., di una specifica, piena e continua garanzia (cfr. sentenza n. 170/1984).

3.2. – Va altresì ricordata la sentenza 9 novembre 1983, emessa in causa 19/82 dalla Corte di Giustizia della C.E.E.. I giudici comunitari erano in quell’occasione investiti dal Presidente del Tribunale di Trento, ex art. 177 del Trattato, di alcune questioni pregiudiziali in ordine ai principi che valgono per il rimborso di tributi riscossi in violazione del divieto del dazio doganale. La causa di merito verteva – non diversamente, appunto, dalle controversie in cui è sorta la questione ora all’esame di questa Corte – sulla ripetizione di oneri fiscali scontati indebitamente dagli importatori su merci soggette al regime del Mercato Comune. Il giudice italiano, occorre aggiungere, aveva adito la Corte comunitaria di fronte alle disposizioni dell’art. 10 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 430, poi decaduto, il quale recava disposizioni sostanzialmente identiche a quelle che ora figurano nel censurato art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688. I seguenti due quesiti, posti in quel giudizio alla Corte della C.E.E., meritano quindi, in ragione del loro oggetto, un cenno di richiamo in questa sede: a) se sia discriminatoria, e perciò contraria all’ordinamento della C.E.E., una legge nazionale che, in deroga alle norme generali concernenti la ripetizione dell’indebito, subordini alla prova della mancata traslazione su altri soggetti il rimborso di diritti riscossi in difformità dalle prescrizioni del diritto comunitario e non sottoponga, invece, alla medesima condizione il rimborso delle tasse interne indebitamente percette ad altro titolo; b) se la prova documentale negativa – alla quale, la legge nazionale, configurata come nel quesito sub a), condiziona il rimborso dei tributi indebitamente riscossi – renda praticamente impossibile l’esercizio dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. Ora, il diritto al rimborso costituisce, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, conseguenza e complemento del diritto all’abolizione del dazio doganale. La pronunzia resa da tale Collegio in relazione all’uno e l’altro dei quesiti sopra richiamati tien ferma questa premessa e adatta alla specie i principi enunciati in precedenti giudizi, per pervenire alla seguente conclusione: sarebbe incompatibile con il diritto comunitario ogni disposizione legislativa nazionale la quale, in punto di presunzioni o condizioni di prova, lasciasse al contribuente l’onere di dimostrare che i tributi indebitamente versati non sono stati trasferiti su altri soggetti, ovvero ponesse particolari limitazioni in merito alla prova da fornire, come l’esclusione di qualsiasi prova non documentale. “Una volta stabilita l’incompatibilità della riscossione con il diritto comunitario” – ha soggiunto la Corte di Giustizia – “il giudice deve essere libero di valutare se l’onere dell’imposta sia stato trasferito su altri soggetti o se lo sia stato in tutto o in parte”. Secondo la pronunzia in parola, va infine ricordato, la legge nazionale che non conforma il regime del rimborso alle suddette prescrizioni in materia di prova, viola il diritto comunitario anche quando essa eviti di offendere il principio di non discriminazione per aver contemplato la traslazione ad altri soggetti come causa estintiva della ripetizione di tutti indistintamente gli oneri fiscali riscossi indebitamente dall’amministrazione.

4. – Detto ciò, occorre vedere se le testé richiamate statuizioni della Corte comunitaria, possano, nel presente caso, essere direttamente applicate dal giudice di merito, per modo che la questione instaurata avanti a questa Corte risulti inammissibile. Nella memoria prodotta in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato ha dedotto che la soluzione adottata nella sentenza n. 170/1984 non impone, e nemmeno consente di giungere a tale risultato. Quella pronunzia avrebbe, secondo l’Avvocatura, tassativamente circoscritto il regime dell’immediata e necessaria applicazione del diritto comunitario alla sola sfera, nella quale la legge interna non interferisce, del regolamento della C.E.E., strettamente inteso come atto produttivo di normazione compiuta e immediatamente applicabile nel territorio dello Stato. Ma qui, prosegue l’Avvocatura, ci troviamo di fronte, non ad un regolamento del genere, bensì ad un principio, che si estrae in via interpretativa dall’ordinamento comunitario. La legge nazionale che ad esso manca di adeguarsi dovrebbe, allora, ritenersi viziata di illegittimità, per violazione dell’art. 11 Cost., e soggetta al controllo di questo Collegio: tanto più, ritiene l’Avvocatura, in quanto nella sentenza n. 170/1984 è stato chiarito che spetta pur sempre al giudice costituzionale, invece che al giudice ordinario, accertare se una legge interna vulneri il nucleo o sistema dei principi stabiliti dal trattato istitutivo della C.E.E.. Ma questi rilievi non meritano accoglimento.

Anzitutto, nell’ipotesi formulata dalla sentenza n. 170/1984 ed invocata dall’Avvocatura, il giudice costituzionale sarebbe chiamato ad occuparsi di una legge che vuol privare di efficacia, nell’ambito dello Stato, il sistema dei principi dell’ordinamento comunitario: sistema che viene, ai fini ora considerati, inteso nella sua interezza, o almeno nel suo nucleo essenziale. La Corte ha del resto avvertito, sempre nella stessa decisione, che il sindacato di costituzionalità può esercitarsi solo sulle statuizioni della legge interna, denunciate avanti ad essa in quanto dirette a pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato di Roma.

Diverso è il caso di specie. Lo stesso diritto comunitario dischiude al legislatore statale la possibilità di regolare, in assenza di una disciplina appositamente dettata dagli organi della C.E.E., l’esercizio del diritto al rimborso. L’ordinamento del Mercato Comune esige però che l’assetto dato da ciascuno Stato membro alla materia si uniformi a certi criteri: e appunto tali criteri la Corte della C.E.E. ha, per quanto qui interessa, compiutamente formulato, pronunciandosi con puntuale riferimento alla traslazione su altri soggetti dell’onere indebitamente riscosso e alla disciplina della relativa prova. Le statuizioni da essa poste in proposito non sono, come vorrebbe l’Avvocatura, insuscettibili di immediata applicazione da parte dei nostri giudici. La sopra richiamata pronunzia del giudice comunitario ha, al contrario, precisato come, e fin dove, la legge nazionale possa incidere sul regime della ripetizione delle somme versate in violazione dell’ordinamento del M.E.C.. Spetta dunque al giudice ordinario accertare, alla stregua dei criteri stabiliti dalla Corte di Giustizia che è interprete qualificata del Trattato di Roma e della normazione da esso derivata, se il diritto al rimborso vada riconosciuto agli importatori senza tener conto delle qui censurate disposizioni della legge nazionale.

5. – La conclusione ora enunciata discende dalla sistemazione che la sentenza n. 170 del 1984 ha dato ai rapporti tra diritto comunitario e legge nazionale. La normativa comunitaria – si è detto in quella pronunzia – entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato; e ciò tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità. Questo principio, si è visto sopra, vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti, come nella specie, dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia. La questione è quindi inammissibile: e lo è, si deve aggiungere, pure in riferimento agli altri parametri, diversi dall’art 11, che sono invocati nelle ordinanze di rinvio. Lo stesso risultato s’impone, del resto, per quanto riguarda il giudizio promosso, in relazione agli artt. 3, 24, 101, 102, 104 e 113 Cost., dal Tribunale di Trieste, sebbene quest’ultimo collegio, come si è premesso, abbia addirittura ritenuto di non dover denunciare la violazione dell’art. 11 Cost.. Il fatto è che la specie, nei casi da ultimo ricordati al pari che negli altri, cade sotto il disposto del diritto comunitario destinato a ricevere immediata e necessaria applicazione nell’ambito territoriale dello Stato. Ricorrendo tali estremi, le questioni di legittimità costituzionale qui proposte sono comunque inammissibili, in riferimento all’art. 11 Cost. o ad altro parametro, per le ragioni già spiegate nella sentenza n. 170 del 1984.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688, convertito in legge 27 novembre 1982, n. 873, sollevata con le ordinanze in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 11, 23, 24, 101, 102, 104 e 113 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 aprile 1985.

F.to: LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ANTONIO LA PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI – FRANCESCO SAJA – GIOVANNI CONSO – ETTORE GALLO – GIUSEPPE BORZELLINO – FRANCESCO GRECO.

GIOVANNI VITALE – Cancelliere